Riproposizione a scopo divulgativo. Tutti i diritti sono riservati ai relativi proprietari.
La copertina di un numero della rivista pulp americana Weird Tales, dedicata al racconto di Edmon Hamilton
Howard Phillips Lovecraft, il noto autore di Providence.
Trova il non bipede.
L'apparato fonatorio umano. (www.midisegni.it)
L'idea di fondo della razza Asari è degna di un B-movie.
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Alla luce del successo dell’omonima saga di Bioware, mi rendo conto che tale titolo possa sollevare qualche interrogativo. Per tale ragione ritengo necessario specificare ciò che intendo puntualizzare in questo mio articolo con una breve premessa.
Ciò che seguirà nelle prossime righe, innanzitutto, non si tratta di un dispiacere legato alla mia esperienza personale con il primo titolo della saga: nel complesso, infatti, l’ho trovato piacevole e coinvolgente, seppur viziato da alcuni bug fastidiosi e da alcune scelte di dialogo le cui ripercussioni sfidano l’intelligenza di un sasso.
Ho deciso infatti di concentrare la mia attenzione sulla dimensione narrativa e sulle caratteristiche del genere letterario a cui Mass Effect è indissolubilmente legato: la Fantascienza.
È opportuno ricordare come i videogiochi e la parola scritta, pur appartenendo a due sfere differenti, hanno in comune una necessità: ciò che funziona sugli schermi deve, necessariamente e preventivamente, essere convincente anche sulla carta. Tale esigenza, naturalmente, si riscontra ogniqualvolta un dato titolo videoludico promette di emozionare e stupire gli avventori grazie alla proprio intreccio e svolte nella vicenda. Dal momento che Mass Effect si fa carico di ciò, e considerando che su alcuni forum qualche utente azzardava l’ipotesi del potenziale di una trasposizione cinematografica della saga, un giudizio letterario su come la Bioware abbia affrontato il genere fantascientifico non glielo toglie proprio nessuno.
Per cominciare, è innegabile come Mass Effect, nonostante sia stato distribuito nel 2007, si ispiri largamente alla corrente immatura e stereotipata degli albori della Fantascienza 1, che apparve nei Pulp Magazine statunitensi nella prima metà del ventesimo secolo, e che conobbe una diffusione massiccia proprio negli States in seguito al secondo conflitto mondiale. Tali riviste raccoglievano, soprattutto, i “vagiti” creativi degli scrittori dozzinali, i cui occhi parevano rivolti alle stelle, ma in realtà il loro sguardo non andava oltre il proprio naso. Tali “autori”, infatti, erano spesso semplicemente bramosi dei compensi dovuti alla pubblicazione su tali riviste, e tendevano a operare una commistione di quegli elementi ricollegabili a una concezione semplicista, conservatrice e dozzinale della diversità cosmica; l’importante era attirare l’attenzione, alimentare la massa, in modo che i lettori di poche pretese acquistassero con regolarità tali riviste.
Il disegno di copertina è dedicato al racconto di Edmon Hamilton.
Negli anni successivi, tuttavia, si fece strada un filone rinnovato, stanco della relegazione della donna a ruoli secondari o negativi, dell’appiattimento della diversità cosmica in un’ottica antropocentrica e manichea e, infine, della anonimità degli intrecci, fini a se stessi. Non è un caso che furono proprio delle scrittrici, quali Ursula Le Guin, Alice Bradley Sheldon (che impiegava lo pseudonimo di James Tiptree) e Octavia Estelle Butler a dare alito a un sottogenere di gran lunga più interessante e costruttivo, talvolta definito come Social Sci-Fi.
Nei racconti di tale filone gli elementi fantascientifici erano utilizzati come elementi di sfondo, mentre nella vicenda centrale si riflettevano le contraddizioni, le problematiche sociali o di altra natura legate al contesto in cui vennero scritte. I messaggi centrali di questi racconti e romanzi, che le autrici e gli autori lungimiranti riponevano nelle pieghe narrative delle proiezioni utopiche e distopiche, trovano tuttora riscontro nelle problematiche odierne, riuscendo a non perdere la propria carica di denuncia e di attualità. Non è un caso che la quasi totalità degli scritti e degli autori ricollegabili al primo filone della Fantascienza siano rimasti nell’oblio delle pagine di infima qualità delle riviste popolari. Una parte dell’atteggiamento superficiale e ingenuo di tali vicende si riscontra nella saga saga della Bioware. Di seguito, stilerò quegli elementi a mio parere più significativi.
Cominciamo da una banalità: il personaggio principale. John Shepard, il protagonista, è un uomo. Egli appare in bella mostra sulle copertine dei titoli, sicuro di sé, fiero e temprato. Il fatto che il giocatore abbia la possibilità di scegliere una protagonista femminile di diverse fattezze è un elemento irrilevante; chi di dovere ha infatti preso una decisione legata alla presentazione del titolo al pubblico, e tale scelta ha prediletto una figura maschile ben precisa. È facile immaginare come la maggioranza dei giocatori abbia preferito affrontare le ostilità nei panni di chi svettava orgoglioso in locandina, piuttosto che creare il proprio personaggio, uomo o donna che sia. Tuttavia, la problematica legata al gender è solo un dettaglio: ciò che colpisce il giocatore che abbia un pizzico di senso critico e orizzonte di aspettativa, infatti, è il modo in cui il titolo affronta la diversità legata all’universo.
Per introdurre questo punto, mi affiderò alle parole dello scrittore americano Howard Phillips Lovecraft (1890-1937). Tale autore, pur essendo legato al genere gotico, dedicò molta attenzione all’alterità cosmica, arrivando ad effettuare una vera e propria opera di rinnovamento del modo letterario a lui congeniale, creando una vena creativa a cui la lingua italiana si riferisce come l’ “Orrore Cosmico”.
Howard Phillips Lovecraft, il noto autore di Providence.
Tuttavia, più che nei racconti, è nelle sue opere critiche e, soprattutto, nelle sue migliaia di lettere che sopravvive la sua più grande eredità a noi pervenuta, di natura letteraria e non solo. È proprio in una Sua del 5 luglio 1927, scritta all’editore di Weird Tales, che abbiamo riscontro di ciò che veramente ci si dovrebbe aspettare una volta usciti dall’atmosfera terrestre:
The general trend of the yarns which seem to suit the public is that of essential normality of outlook and simplicity of point of view – with thoroughly conventional human values and motives predominating, and with brisk action of the best-seller type as an indispensable attribute. The weird element in such material does not extend far into the fabric.
Now all my tales are based on the fundamental premise that common human laws and interests and emotions have no validity or significance in the vast cosmos-at-large. To me there is nothing but puerility in a tale in which the human form […] [is] depicted as native to other worlds or other universes. To achieve the essence of real externality, […] one must forget that such things as organic life, good and evil, love and hate, and all such local attributes of a negligible and temporary race called mankind, have any existence at all. […]
I presume that few commonplace readers would have any use for a story written on these psychological principles. They want their conventional best-seller values and motives […], and would not deem an “interplanetary” tale in least interesting if it did not have its Martian (or Jovian or Venerian or Saturnian) heroine fall in love with the young voyager from Earth. […] If I were writing an “interplanetary” tale it would deal with beings organized very differently from mundane mammalian, and obeying motives wholly alien to anything we know upon Earth. 2 [sottolineatura mia]
È proprio in queste sue parole che si trova la chiave di lettura con cui giudicare qualitativamente tutto ciò che ci viene presentato come “alieno”. Considerando che le forme di vita sviluppatesi al di fuori della Terra sono automaticamente legate a pianeti ed ecosistemi totalmente differenti dal nostro, ogni approssimazione o netta somiglianza nei confronti della specie umana sarà sintomo di una certa ingenuità creativa. Tale elemento, inoltre, è rivelatore di un approccio alla diversità in una chiave conservatrice, che rifiuta la vera alterità a favore di una concezione antropocentrica, nonostante vi siano in ballo delle ipotetiche forme di vita cosmiche sviluppatesi ad anni e anni luce di distanza dal nostro pianeta.
Come specificato da Lovecraft stesso, una volta che ci si è allontanati dalla sfera terrestre, tutti i valori, le emozioni, le lingue, l’aspetto, il sesso, la cultura e tutto ciò che caratterizza la razza umana perde il suo valore. Tutti questi elementi divengono, per l’appunto, estranei e privi di significato, proprio perché estrapolati dal contesto a cui non solo sono legati, ma che legittima la loro validità. Decidere di prendere a modello i valori legati alla razza umana per dipingere ciò che si trova al di fuori del nostro pianeta rappresenta, senza dubbio, un’operazione puerile e controproducente.
Purtroppo, è il caso di dirlo, è sotto questo aspetto che Mass Effect casca, proprio come il proverbiale asino. Già nella prima missione, infatti, il protagonista è affiancato a uno Spectre di razza Turian. A prima vista, tale essere parrebbe un umano con una maschera minacciosa. Magari lo fosse: è un “alieno”. Come è giusto che sia, non tutti hanno idea di chi sia un Turian, e quindi proverò a descriverlo nei punti fondamentali, senza spendere troppe righe.
Essi sono bipedi, hanno due gambe, un sedere, una vita, un tronco, due braccia, due mani, “spalloni”, una bocca, un naso, due occhi e parlano un inglese impeccabile. Si tratta di un giocatore di rugby delle isole britanniche? No, è un Turian.
Gli unici elementi alieni riscontrabili nei tratti facciali, e in quei minuti dettagli corporei (sempre e comunque ispirati a forme di vita terrestri) non rappresentano altro che il facile lavoro di chi si è trovato costretto a concentrare quanta “diversità” possibile nell’unica parte messa veramente a sua disposizione: la testa.
Questo schema riduttivo, antropocentrico e creativamente deficitario si riscontra in tutte le altre razze presenti nel gioco; vi sono pochissime eccezioni, (gli Elcor 3 e gli Hanar 4) probabilmente inserite nel vano tentativo di correggere una tendenza che oramai aveva già pervaso la maggioranza degli “abitanti delle stelle” del titolo. Eccetto le esigue esclusioni, infatti, si può tranquillamente affermare che ogni razza presente nel gioco sia il riflesso fisico e attitudinale, completo o parziale, tipico della razza umana. Tale elemento non solo denuncia una profonda negligenza dell’approccio creativo nei confronti dell’alterità cosmica, ma anche una pericolosa operazione di appiattimento della diversità stessa.
Trova il non bipede.
Oltre al mero aspetto fisico, ciò che fa rimanere di sasso i giocatori più attenti è il fatto che tutte le razze si esprimano in un perfetto inglese. Tale fattore va a cozzare irrimediabilmente con la situazione socio-politica che si instaura nella trama: gli umani, infatti, sono poco considerati nel panorama politico e istituzionale delle altre razze. Ma questo fattore è il più insignificante, in quanto il vero problema è un altro, e di natura anatomica. Le razze aliene, infatti, per quanto di corporatura del tutto simile all’uomo, dovranno possedere, per cause di forza maggiore e indiscutibili, un apparato fonatorio completamente diverso da quello umano. Ciò implicherebbe la creazioni di suoni non solo a noi incomprensibili, ma anche irriproducibili dal nostro apparato dedito alla comunicazione orale. Ciò, naturalmente, vale anche al contrario.
L’apparato fonatorio umano. (www.midisegni.it)
Gli alieni, pur sforzandosi, non potrebbero mai esprimersi in una qualsivoglia lingua terrestre senza incontrare estreme difficoltà, viziandone la comprensione se non annullandola del tutto. Tale elemento è comprovato solidamente dalla difficoltà che si riscontra tra gli stessi esseri umani quando sono alle prese con la fonetica di una data lingua straniera; se questi problemi si riscontrano in presenza di apparati comunicativi identici fra loro, figuriamoci con quegli alieni!
La problematica di cui sopra è anche legata al concetto stesso della lingua. Ogni linguaggio, infatti, altro non è che una modalità di concepire la realtà che circonda un gruppo di parlanti che si riconosce in un popolo. Ogni lingua, di fatto, è un vero e proprio sguardo unico su tutto ciò che essa può riproporre sottoforma di discorso; se tali differenze sono già innumerevoli tra le lingue presenti sulla Terra, anche quando impegnate nel descrivere lo stesso significante, non possiamo nemmeno immaginare quali problemi linguistici potrebbe causare l’incontro con una creatura aliena a tutti gli effetti.
Nei dialoghi, come se non bastasse, ogni tanto tali creature cercano di prendere dimestichezza con le espressioni idiomatiche umane (ovvero “i modi di dire”). Tale fatto non tiene conto che tali espressioni cambiano totalmente tra una lingua umana e l’altra, di cui l’inglese è solo un piccolo campione. Anche in questo caso, quindi, ci troviamo di fronte a una estrema semplificazione della diversità, e, in particolare, di una diversità linguistica terrestre: il problema cosmico, infatti, non è nemmeno sfiorato dalla celebre saga.
Gli alieni di Mass Effect, ormai è chiaro, sono ben lontani dal rappresentare una vera alterità. Essi sono semplicemente tutto ciò che per la cultura di partenza (occidentale) viene percepito come estraneo, diverso. Esso viene quindi “rigurgitato” e spalmato in modo dozzinale su pianeti lontani e popolazioni che di alieno hanno ben poco: persino i nomi di tali popoli hanno sempre e comunque una etimologia umana. Non a caso, ben quattro razze terminano con la lettera “n” (Salarian, Turian, Krogan, Quarian), suggerendo un’origine pseudo celtica o orientale. Le denominazioni rimanenti hanno tutto fuorché una caratteristica altera, e, con un minimo di conoscenze filologiche, si potrebbero facilmente ricollegare ai grandi ceppi linguistici.
In ultima istanza, la razza Asari è degna di menzione. Questa specie aliena, infatti, è composta interamente da donne. È doveroso rammentare come mantenere una distinzione tra genere maschile e femminile al di fuori del nostro pianeta sia, di per sé, già una svista considerevole. Di conseguenza, è innegabile il fatto che la concezione di una razza aliena composta interamente da esseri provvisti di organi mammari e genitali femminili pari a quelli umani (e compatibili col membro maschile umano!) non possa far scattare altro che l’ilarità e il riso a causa della sua profonda ingenuità.
L’idea di fondo della razza Asari è degna di un B-movie.
Alla luce di questi fatti, è innegabile come il titolo affronti in modo puerile e semplicistico ciò che invece andrebbe curato nei dettagli, in modo da rendere più credibile, godibile e solido il tutto. La possibilità di congiungimento fra il protagonista e la bella aliena, infatti, completa il quadro di una vera e propria “space opera”, che tutto ha fuorché l’originalità e il buon senso, almeno per quanto riguarda il background cosmico e l’approccio con l’alterità.
In conclusione, mi rendo conto come il tono dell’articolo abbia assunto note piuttosto critiche in certi punti; tuttavia è mia intenzione precisare che la mia intenzione rimane, come anticipato, quella di approfondire alcuni aspetti a mio avviso significativi, di natura oggettiva e legati al modo letterario della Fantascienza. Ogni critica costruttiva, quale io spero che sia questa Mia, ha la possibilità di donare un piccolo spunto critico per chi ha carpito il messaggio di fondo. Mi auguro che le mie parole possano far acquistare al pensiero dei lettori ulteriori sfumature nei confronti di come ci viene presentata oggi la diversità, non solo negli odierni videogames, ma anche e soprattutto nei media di varia natura.
Se nel mondo videoludico, nella narrativa o in altre manifestazioni culturali sentiamo ancora il bisogno di proiettarci al di fuori dei confini terrestri per timore di un vero confronto con ciò che è ignoto e sconosciuto, il motivo, forse, risiede nel timore inconscio di essere cresciuti molto poco nella morale e nell’etica, sia nel rapporto coi nostri coetanei che con ciò che ci circonda. Se questo timore si rivelasse veritiero, un incontro ravvicinato con una specie realmente estranea potrebbe rivelare tutti i nostri errori di percorso, ma allo stesso tempo un termine di paragone per comprenderli e evitarli. Tuttavia, poiché “The oldest and strongest kind of fear is fear of the unknown”5, gli autori che decidono di prendersi questa responsabilità sono molto pochi.
Augurandomi che abbiate trovato l’articolo interessante, e non eccessivamente lungo e pedante, auguro a voi lettori buon gioco, ma, soprattutto, un buon futuro.
Grandpa Theobaldus
Note bibliografiche e di fondo:
1 È corretto precisare come la Fantascienza, in realtà, abbia avuto qualche sporadica apparizione anche nella narrativa dei secoli precedenti il Ventesimo, di cui l’autore Jules Verne ne è un perfetto esempio.
2 - Lovecraft, H. P., Selected Letters: 1925-1929, A cura di Derleth A. & Wandrei D., Arkham House, Wisconsin, 1968, pp. 149-150
3 Elcor: rappresentano una delle due eccezioni in cui la diversità cosmica si manifesta in modo più netto. Tuttavia permane un elemento che lascia a desiderare: la lingua. Tali esseri, come viene specificato, comunicano attraverso gli odori e piccoli gesti. Di conseguenza, sono naturalmente impossibilitati a comunicare per via orale poiché non ne hanno mai avuto bisogno. Ciononostante, essi si lanceranno in lente ed estenuanti conversazioni in… lingua inglese.
4 Hanar: esseri composti da una sostanza gelatinosa. Comunicano con fasci luminosi, e nel contatto con altre specie bisognano dell’aiuto della tecnologia per comunicare. Tuttavia, come un linguaggio basato su dinamice di luce e cromi si possa tradurre nell’inglese del XVIII secolo rimane un mistero.
5 - Lovecraft, H. P., Supernatural Horror in Literature (novembre 1925 – maggio 1927), The Recluse, Fantasy Fan, ottobre 1932–febbraio 1935, in Complete Works of H. P. Lovecraft, delphiclassics.com, posizione 1974 di 2114
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