Confini provvisori si pone nel contesto di una scrittura af/franta, non pacificata con le istanze della sua necessità; quindi, sembrerebbe, in cammino nella forma, scritta mentre si cerca, si definisce. Se non fosse che, il pessimismo che l’attraversa, la carica della semplice consapevolezza dell’umano, la rende priva di progressione, di ricerca: “Un cielo che porta dentro il nostro/male e non sa cadere. Né cambiare luogo. Fermo così,/metronomo biologico in controtempo/sembra franare ai suoi occhi. E anche a noi”, p. 52.
Insomma, niente accade, può accadere, perché tutto già è. Tutto è già un finale. Piuttosto si tratterebbe di ripartire dalla frana, dall’annullamento – già avvenuto – di tutti i significati: “bisogna perdere tutto per ritrovare la dignità”, p. 40.
Il poeta non cerca in questi testi, una forma definitiva in quanto nulla è definitivo, tantomeno la forma. Così leggiamo frammenti di bellezza – bellezza franta, appunto – nella tensione di ri/definire qualcosa che è noioso ripetere perché inconoscibile, dotato di maschere: il dolore, il non senso del mondo. Rimane il dubbio che Lombardo si riferisca a un incidente di percorso, “di nuovo in questa casa (una parte di mondo,/un luogo dove forse avrei potuto abitare) cercando/le tracce che abbiamo lasciato”, p. 77, piuttosto che a una condizione ontologica; “il mal bianco che ha devastato ogni cosa”, p. 78.
Un verso di Reverdy, citato all’inizio, “on lasse toujours quelque chose devant/la porte”, p. 11, sembra indicare la strada di un compito della poesia come variazione intorno a ciò che è rimasto dopo “un taglio definitivo. Deciso. Una ferita/non casuale/al centro della memoria”, p. 91. Se nulla di nuovo accade, o può più accadere, non rimane che fermarsi intorno ai punti, ai nodi mai diventati risvolti, delle proprie vicende: un bilancio drammatico sul senso della propria generazione (noi), riconoscendo le stigmate di un’ignoranza, di una violenza subita: “Abbiamo lasciato/in luoghi già dimenticati/tracce senza panorami,/fatto sopravvivere, anche per poco, i migliori incubi/di una generazione (aggiungere lettere o numeri/non ci ha resi più riconoscibili”, p. 48.
Il problema è quello di come pronunciare il vuoto senza ammantarlo di pianto, ma per strappi e accelerazioni. Partendo da un vuoto di senso che non vuole essere colmato ma solamente esposto: “Ora che tutto è già finito/che anche questa/cosa è chiusa/per sempre/osservo il/centro preciso,lo scatto del coltello,/il punto esatto in cui restare fermo/perché la lama entri senza far male”, p. 89.
La parola si accontenta, non salva nulla e nessuno. Semplicemente accompagna l’esperienza dell’essere non sociale: che è, senza adombramenti né maschere. La pagina sulla quale scriviamo è dunque provvisoria: “Lasci che il sangue chiuda la ferita/perché ciò che rimane resti corpo/e basta/una pagina sbavata/e bianca. Uno scarto, un suono vuoto./Solo per fare male.”, p. 97
Sebastiano Aglieco