Materiali da Land: Roberta Borsani

Da Narcyso

“la notte/che finì con l’incanto/degli unicorni giunti/a nozze. (…)/noi piantiamo un rosaio// (…)/ s’infuriò forse un dio/roso da invidia/perché un inverno/pallido/più del gelo/lo uccise.//Non fu nostra la colpa”, pag. 40.
Ecco: il rosaio di Roberta Borsani ci parla di ciò che resta dopo l’inverno, l’operato del male e la splendida resistenza del bene. L’anima mundi gioisce e patisce, spalanca le porte al senso delle cose ma anche al mistero che le assilla. Se la morte ci abita per necessità della rinascita, il pullulare delle forme esulta anche nella lontananza di un paradiso, di una morte certa.
Dopo l’innocenza perduta, gli esseri non hanno smesso di essere. Piuttosto hanno appreso il compito, che è quello di custodire e di prendersi cura “e se muoiono le api/siamo noi/della stirpe di Caino/e loro le nate/dal sangue di Abele”, pag. 31 .
Questa nascita dal terzogenito, indica la possibilità di recidere il cordone ombelicale con la colpa originale, col primo gesto è il primo peccato. C’è qualcuno che rinasce ancora, per lontananza, costretto a contemplare le infinite variazioni della creazione come guardando in uno specchio; non l’ombra di ciò che rimane ma una infinita promessa: una rinascita costante.
Che cosa, chi, potrebbe interrompere il flusso? Una catastrofe naturale, l’uccisione dell’amante che tutto lo abbraccia; quella grande mater ancora capace di scoppiare nelle sue gemme, di darsi in pasto alle creature per sacrificio.
Questo libro, dunque, è preghiera per ciò che è rimasto e va custodito; ma anche requiem per ciò che ha perduto la sua natura, lontano dalla morte.
La morte non può, non deve spaventare. Spaventa invece, l’estinzione delle creature, il loro non poter più ritornare alla vita. In fondo, il fine ultimo del male, è quello di stracciare i verbali, la prova che le cose sono esistite.
Sebastiano Aglieco

PADRE CHE NON SALVI

padre che non salvi
padre che lasci cadere

si assorbono
nel niente le tue strade
come macchie d’acqua
sopra ombrelli di seta

l’orbita
vuota di una stella
estinta
da un milione di anni
è lo specchio morto del tuo gelo
quando scruti
con sguardo implacabile
sopra i sassi
tra i fiori
e discerni gli umani da amare
gli altri destini all’orco

come posso chiamarti
come posso cambiarti
(sciogliere
la tua stretta di neve)
padre che non salvi
padre che lasci cadere

*
L’opera che dialoga con le parole di queste poesie è di Andrea Capucci, ed è tratta dal catalogo “stanze di terra”, città di Pavullo nel Frignano 2007


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