Un circolo vizioso nel quale Mason si imprigiona allegramente: mai che condanni in toto il capitalismo, solo la parte più macroscopicamente esecrabile. La pirateria, il punk capitalismo per lui sono i modi giusti per macinare soldi. Tra le righe si scorge la convinzione che alla fine il mercato si riduca a una lotta tra innovatori e reazionari, tutto senza mai immaginare (per carità) un’alternativa radicale al capitalismo. A tal proposito si può sottolineare la goffa esaltazione del graffitista Marc Ecko, che finse di dipingere la carlinga dell’Air Force One con la tag “Still Free” e diffuse il video viralmente sul web. L’operazione alla fine si rivelò una carnevalata che aveva come scopo quello di pubblicizzare una linea d’abbigliamento. Risulta inoltre incomprensibile l’ammirazione che Mason mostra di avere per il fiuto degli affari degli artisti hip-hop: fare vagonate di soldi, commercializzare il loro nome su qualunque prodotto spendibile, è il loro peculiare modo di esprimere la propria arte! E facendo un clamoroso autogol Mason riporta la frase di quel genio di Johnny Rotten (Johnny il Marcio, traducendo alla buona), l’ex leader dei Sex Pistols, che nell’ultimo concerto salutò i fan con la frase più significativa del punk: «Mai avuta la sensazione di essere stati traditi?». É vero, come ricorda anche Mason, i Sex Pistols furono un’invenzione a tavolino di Malcolm McLaren, il famoso manager arrivista, non nacquero dall’urgenza di liberare il grido di rivolta delle classi degradate, furono infatti regolarmente reclutati tramite audizioni. Vestiti da Vivienne Westwood, che sarebbe diventata la creatrice di uno dei marchi di moda contro il quale Johnny Rotten avrebbe sputato nella sua fulminante carriera, i Pistols, pur con tutte le loro mai celate contraddizioni, hanno però rappresentato il vero spirito punk. Propugnavano un’anarchia distruttrice, detestavano qualunque rappresentanza politica (a differenza degli impegnati Clash), cantavano, nell’unico album registrato, un nichilismo e una sfiducia nell’uomo mai apparsa prima in musica, e Sid Vicious era così scarso a suonare che non si accorgeva nemmeno di quando durante i live gli staccavano il basso. Come tanti dj che credono di capirne di punk, Mason l’annacqua fino a farlo diventare soltanto una generica ribellione contro l’autorità. Lo riduce a materia così liquida che perfino il suo contrario per definizione, il capitalismo, può essere punk, perfino l’hip-hop trae da qui le sue origini, perfino un sottogenere come il “grime”, bruciatosi nel giro di due anni senza aver prodotto nulla di significativo nel mondo musicale, ha le sue dovute somiglianze. Sì, certo, intitola il tuo libro “Grime Capitalismo” e vedrai quante copie venderai! Pur con un’impostazione di fondo quantomeno discutibile questo saggio è così zeppo di notizie e aneddoti che alcuni si rivelano interessanti. Da salvare, ad esempio, il secondo capitolo con la fiabesca, per quanto incredibile, vicenda del Principato di Sealand, il più piccolo Stato al mondo con soli cinque abitanti e situato su una base militare dismessa al di là delle coste britanniche. Ben condensato anche il terzo capitolo, incentrato sulla cultura del remix: questo è proprio il campo dell’autore, la scrittura difatti si fa fluida e partecipata e la storia di questa nuova pratica musicale viene scandita esaurientemente attraverso una serie di tappe e artisti significativi. Anche il capitolo successivo, sulla cultura dei graffiti, è gradevole e risulta azzeccato il confronto tra pubblicità e graffitismo. La critica, condivisibile, dello scrittore è che se molti sindaci condannano quest’ultimo pur se innocuo e bello da vedere, nulla fanno invece per regolamentare la pubblicità invasiva che dilaga sulle nostre strade, palazzi e perfino monumenti. Dopo questo blocco encomiabile Mason ritorna purtroppo a sproloquiare sulla cultura open source del web, sull’hip-hop e sulla politica economica dei pirati. Preso da una spirale ottimistica ormai inarrestabile, l’autore si lancia in un climax ascendente e apodittico di affermazioni che culminano con l’esposizione di una teoria saccente. Rifacendosi alla teoria dei giochi, già usata in economia e in particolare al cosiddetto dilemma del prigioniero, Mason la mutua per dimostrare che accertata ormai per irrefutabile l’esistenza dei pirati, alle aziende conviene competere piuttosto che concentrarsi su una sterile repressione che alla fine comunque le vedrà perdenti. «Cooptate i pirati prima che essi vi distruggano» è il messaggio che pressappoco viene lanciato alle aziende. E allora piuttosto che «un affascinante panorama delle forze rivoluzionarie» (come scrive la rivista Publishers Weekly) “Punk Capitalismo” può essere letto alla stregua di un qualunque manuale di marketing che spieghi a dirigenti cerebrolesi dove andare a raccattare idee per non morire nel nuovo Mercato 2.0. «Il punk non è morto» – sussurra una voce femminile alle mie spalle, interrompendo la mia lettura. Mi giro, sorpreso e vedo mia moglie avvolta nella luce porpora di un tramonto luciferino. «Il punk come lo credevi tu non è mai nato» – sibila.
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