Matteo Bonsante: a calor freddo

Da Narcyso
13 aprile 2014

Matteo Bonsante, SIMMETRIE, CFR 2013

Qual è la musa di Matteo Bonsante? Malgrado egli faccia riferimento all’essere, direi l’Eterno. Sta da decidere se nei suoi testi questo Eterno costituisce l’Essere o se l’Essere lo abiti pur in una distanza che ha bisogno di una declinazione nella Forma, negli sguardi corrispondenti della vita. O in nascondimenti, al limite – lo sguardo, vivendo una realtà franta, deve esercitare massimamente l’attenzione, che è forma di una religio naturale, in grado di compenetrare la rottura e di sanarla, quantomeno in preghiera, contemplazione o, in altri versanti, racconto -

Lo sguardo, nel caso di Bonsante, è breve, le sue annotazioni sono rapidi “post it”, e le parole glabre. Il resto è contemplazione nelle parole insufficienti del mondo, eppure evocative e struggenti, nel momento in cui giunge ad esse l’intensità di una visione che attraversa il fuoco della separazione.

A volte ho l’impressione d’
essere il crepitante bagliore
di un incendio che
eternamente arde in uno
spazio altro.

p. 22

Bonsante intuisce che, in fondo, anche la parola, pur rauca e approssimativa, è un aspetto declinato del logos, cioè della Parola tutta.

La parola delle scienze è una
freccia infuocata scoccata
nel buio
delle cose e degli eventi.

Ci ritorna colma di ore.

*

La parola della poesia è uno
scandaglio
affondato nel corrusco cuore
dell’eterno.

p.25

Ma anche che l’io è simmetrico, specchio di una divinità in cui ha bisogno di ri/conoscersi, evidentemente per un desiderio di ricongiunzione.

L’io sguardo simmetrico e
viandante
della divinità.

E sua sezione aurea

p. 29

Due realtà che s’incontrano, dall’una e dall’altra riva di uno stesso fiume e che noi percepiamo come separate perché immersi nel vorticoso giro delle ore.

La poesia di Bonsante, sostanzialmente ottimistica e contemplativa, cerca di recuperare persino lo sconforto della morte, considerando che la sorte del viandante e il culmine della rivelazione a cui anela, si realizzano nell’Ora in cui si compenetrano tutte le ore: l’Ora della rivelazione, non tanto perché qualcosa di definitivo è stato pronunciato, ma perché l’Essere, malgrado la nostra resistenza, è capace della percezione del compimento che Bonsante sembra individuare non nell’afasia del silenzio ma nel misterioso acquietarsi di un paesaggio, nell’irraggiarsi improvviso di una luce.

Questa poesia si fa più drammatica quando cerca di spiegare il dolore della rottura, nell’individuazione della “dissimetria”, che egli interpreta come un annebbiarsi della luce perché la materia porta con sé “un nembo di oscurità, / di tenebra”, p. 37.

Questo canto, dunque, è simile, per tono e argomento (seppur modernamente asciugato in essenza, in mancanza di racconto) alla riflessione teologica del Paradiso ma se ne distacca per la mancanza di “cammin” verso una qualche redenzione e rimane sospesa, quindi, tra il possibile e il rischio dell’esistere.
È una realtà, la nostra, che così è, sprofondata nel suo immanentismo immodificabile e irridemibile; non corrotta dal panico delle emozioni ma compresa da una commozione fredda di fronte all’eterno, che è di natura critica e mentale.
Il pensiero gioca un ruolo chiave in queste poesie, in quanto la presenza dell’altro è una esperienza percepibile nello stato di attenzione e di calma, dentro una luce chiarissima, estiva, in cui le cose splendono e si consumano in un banalissimo trapassare.
Ma in che cosa consiste, in fondo, la causa di questa misteriosa separazione dal Tutto? Innanzitutto noi non sappiamo se si tratti di una separazione; sappiamo che la percepiamo come tale perché ne avvertiamo la conseguenza più immediata, il dolore. Bonsante ci dice però che neanche il dolore basta per capire: non hanno pensiero speculativo le bestie, che pur del dolore hanno esperienza. Ciò che ci fa abitare la realtà divisa è l’anche che siamo, l’oltre:

Ma è questo mio anche essere cosa
che mi impedisce di dissetarmi
febbrilmente
oltre le cose.

*
Ed è questo mio anche esser mente
che mi impedisce di disperdermi
dolcemente
oltre la mente.
p. 48

L’esperienza del logos, quindi, non è legata strettamente alla percezione di sé ma a un varcare quell’altro che siamo.

Il logos, seminatore e reggitore celeste.
E noi, umani, spesso nello sgomento.

p. 58.

Eppure, malgrado questa chiarezza di intenti, rimane ancora un passo da fare: la dichiarazione, mentale o fideistica, a seconda dei punti di vista, dell’appartenere a un Tutto, non può reggere senza l’altra dichiarazione dell’esistenza di un conclamato atto di libertà che, se è tale, include in sé la possibilità di salvarsi o di negarsi.

Il più grande dono è essere nato
libero.
Libero di slegarmi da me stesso
e di dissolvermi nella tua impervia
infinità,
essenza e scopo del tuo / mio
esistere.

Conoscermi e
negarmi
all’inquietudine dei venti e della Storia
che non sanno da dove vengono,
né dove vanno.

p. 55

È in questa libertà, quindi, che si situa lo scandalo del sentirsi oltre, trascinandosi dietro il fardello o il bene della coscienza.

Sebastiano Aglieco

***

Con le mie glabre parole
appunto dei post-it sul volto
dell’eterno.
p. 19

Le cose e gli uomini hanno
uno strano modo di guardare
il cielo.

*

Le cose e gli uomini
hanno uno strano modo di pregare.
p. 21

Che acre pena sentirsi nebbia
e non stillante gioia, caligine
e non vibrante ardore
nel grande tramestio delle strade
e dei giorni.

- Una fiaccola, una candela,
porgete un cerino per illuminare
il viottolo.
p. 28

Al risveglio la mattina, gli uomini
si preparano per la dura giornata
di lavoro.
Indossano indumenti, fanno colazione.
Si caricano di pensieri, di affanni,
e forse anche di speranze.
Escono di casa,
il cuore altrove.

Ma sul balcone di almeno
uno di essi c’è un vaso
con una rosa
Colma di solo essere.

p. 86

In questo nostro esserci, svettano
due ardenze che si confrontano e
si compenetrano:
la coscienza e il mondo.
Esiste il mondo che si rispecchia
e si invera nella coscienza,
ed esiste la coscienza che
si riflette e si dispiega nel mondo.

Perfetta divina bi-riflessione
sul bilico dell’attimo tagliente.

Ma c’è un vedere – oltre il mondo
e oltre la coscienza -
del nostro vero nome: la cosa in sé.

Del nostro più vero essere.
p. 83