Nonostante fosse stato tra i più ricercati artisti della Germania del primo cinquecento (l’epoca di Durer, Cranach il Vecchio e Altdorfer), non solo come pittore ma anche come ingegnere idraulico, di Matthias Grunewald si persero ben presto le tracce, già all’indomani della sua morte, avvenuta nel 1528, a circa 50 anni d’età. Il nome stesso fu dovuto ad una scelta (non è dato sapere su quali basi) del Vasari tedesco, Joachim von Sandrart, il quale nel 1675 identificò con questo nome un pittore noto come Meister Mathis (ma anche come Mathis Gothart o Mathis Niethart!) citato più volte in registri e lettere dei primi decenni del secolo. Sandrart deplorò l’oblio in cui era caduto il visionario artista e si ripromise di non risparmiarsi alcuno sforzo affinchè il grande maestro ritornasse alla dovuta notorietà.
Ma, evidentemente, gli sforzi di Sandrart non sortirono l’effetto voluto, dato che solo nell’ottocento, soprattutto per opera del grande storico svizzero Jacob Burckhardt, la sua arte iniziò ad essere studiata sistematicamente, per poi divenire addirittura oggetto delle proiezioni letterarie e musicali, rispettivamente di Huysmans (Là-bas, 1891) e Hindemith che, intorno al 1935, fece dell’artista il rivoluzionario protagonista di un’opera, Mathis der maler, ridotta successivamente anche in versione sinfonica.
Fortunatamente le peculiarità stilistiche del buon Mattia furono talmente spiccate da consentire la ricostruzione del suo percorso artistico con buona attendibilità. Già dai primi lavori riconosciuti, la scelta di spingere la sua pittura verso orizzonti ineditamente espressionistici, sacrificando all’uopo, se necessario, anche la rigorosa aderenza alla natura, lo posero in una posizione antipodica nei confronti di Albrecht Durer. Il senso della proporzione, l’unità armonica, la misura di cui Durer diede magistrale lezione, per Grunewald dovevano essere messi in secondo piano, rispetto all’impressione che l’arte doveva suscitare.
Ecco come nel Cristo deriso di Monaco, considerato del primo lustro del ’500, la carica grottesca degli aguzzini, che fa venire in mente Bruegel il Vecchio, non snatura affatto la drammaticità della scena, ma anzi trova un mirabile equilibrio con la patetica figura del Cristo, arrivando, nello straniamento, ad una più compiuta aderenza alla verità del messaggio cristiano. Nel suo sommo capolavoro, la sublime e titanica scatola magica dell’Altare di Issenheim del 1510-15, l’artista mostra inequivocabilmente la sua versatilità, ribadendo, con la prima faccia, la sua interpretazione viscerale e crudele (in senso artaudiano) del dramma di Cristo nella Crocifissione; aprendo, nella seconda faccia, con un idillio di luce e colore nell’Annunciazione e nella Natività, stemperato dal chiaroscuro del pannello della Resurrezione, col quale Grunewald getta un ponte sorprendente tra Piero e Caravaggio; per concludere, nella terza, con l’apoteosi visionaria dei Santi eremiti Antonio e Paolo e le Tentazioni di Sant’Antonio, opere che fanno pensare, oltre a Bruegel il vecchio, agli esiti di El Greco (sensazione che si rafforza davanti alle due tavole di Karlsruhe, con la Crocefissione e il Trasporto della Croce, tra le ultime opere del maestro).
Forse fu proprio questa sua radicale e simbiotica adesione al dramma vissuto da Cristo a fargli guadagnare un lungo oblio , prima della riscoperta ottocentesca di Burckhardt. Non più l’apollineo figlio di Dio della tradizione pittorica, ma un malaticcio, tetanico (Huysmans) uomo tra gli uomini, un educativo pugno nello stomaco in luogo dell’icona consolante della tradizione.
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