Maurizio Casagrande, Tutto ciò che ho scritto

Da Narcyso

Maurizio Casagrande, SOTO ‘A NOGARA, MA FORA STAJÒN, Sotto il noce, ma fuori stagione, La Vencedora 2015

La scrittura di Maurizio Casagrande è portatrice di una schiettezza che ha pochi paragoni: ruvida, popolare, perfino burbera, assolutamente autentica, costruita dentro le ragioni del proprio esistere – l’io che si scontra col mondo e nello stesso tempo ne è prepotentemente abitato -.
È una poesia che non la manda a dire, attraversata da scoppi di risentimento come da tenerezze disarmanti, ma anche, e soprattutto, da un severo bilancio delle proprie debolezze, delle proprie stimmate.
È impensabile questa poetica senza tener conto della lingua, un dialetto ruvido, eppure ricco di suoni capaci di esprimere una vasta gamma di esperienze pubbliche e private. Mentre nella resa in italiano l’attenzione non può che concentrarsi sul senso, leggendo in dialetto non possiamo sfuggire alle sporgenze e alle cavità ritmiche, persino a scoppi di accentazione che a volte velocizzano il ritmo, a volte lo rallentano.
Personalmente avverto una forte necessità di questa verità bruta, la quale probabilmente può dar fastidio a qualche poeta dal palato fino, ma si tratta di una lingua che mette in ridicolo certi stanchi trucchetti letterari, il vuoto a perdere che si nasconde dietro un sontuoso paravento di effetti e di retorica.
C’è da chiedersi che cosa ci possa dire ancora di così urgente la poesia dei nostri giorni, sempre di più calata in un ambiente di dissoluzione e di smarrimento. È chiaro che essa debba porsi problemi di poetica, prima che di scrittura. Così, sembrerebbe strano attribuire al dialetto, e cioè a una lingua disinteressata all’estetica, la possibilità di affrontare questioni di natura metaletteraria, eppure è innegabile che l’utilizzo del dialetto provenga proprio dall’urgenza del ridare senso alla parola, di rifondare, piuttosto che ricordare. La lingua di Casagrande s’innesta in un presente assoluto, nell’attimo stesso in cui la nominazione sente il bisogno di richiamare alla  parola la complessità della realtà e la sua sua urgenza di rappresentazione.

BASSACUNA

Cogne copalo el mas-cio
vanti de pesalo
pa’ savere coeo cal vae

Vense
ai poeti
basta tajarghe ‘e bae

Bilancia: Occorre ucciderlo il maiale / prima di pesarlo / per stimare il suo valore // mentre / ai poeti / basta tagliare le palle

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MADONA E FANTOIN

   A Nadia e al suo piccino

On putìn parsora on passegìn
so mare dadrio ca ‘o tende da vissìn
‘na manina picenina ca se leva
de colpo   sto ceo ca la moèsta
a saeùdare
col so faciòn ca ride cavandote
el magòn cal pare
col te saeùda el papa in caregòn
col dà ‘a benedissiòn
a tuto l’orbe

Madonna col bambino: Un bambino sopra il passeggino / la madre ad incalzarlo premurosa / una piccola mano che si alza / all’improvviso    il pupo che la agita / nell’atto di salutare / col suo volto allegro e sorridente che fuga / ogni tristezza e sembra / allorché ti saluta un papa in seggiolone / quando impartisce la benedizione / urbi et orbi