Maxime Chaya

Creato il 18 febbraio 2011 da Faustotazzi

Maxime Chaya è magro e secco che sembra un finaziere di Predazzo. Un libanese angoloso che calzava male in quel completo giacca e cravatta perennemente troppo largo o troppo lungo. Però Maxime Chaya quella volta mi ha salvato la giornata, prima che svenissi nella noia di quell'evento.
Il 15 maggio 2006 Maxime stava lassù al campo avanzato ad aspettare ormai da giorni che arrivasse un tempo buono per salire fino alla cima. Giorni di attesa fredda, come nello spiffero di un corridoio che a continuare a starci prima o poi ci sia abitua. Ma quella mattina era l'ultima, la possibilità finale per salire, l'estrema speranza prima di essere costretti a desistere, l'ultima finestra prima rassegnarsi a essere arrivati fin lassù per non toccare il cielo. Fare trenta senza poter fare trentuno, anzi far trentamila senza trentamilaeuno.
Erano tutti stanchi, sfiniti oltre ogni pensabile limite umano, il corpo ha bisogno di adattarsi lentamente all'altitudine e ancora prima di iniziare l'ascesa vera e propria lo sforzo che viene profuso è enorme. Ci erano voluti sette passaggi intermedi per arrivare fin lassù, sul versante nord della grande montagna. Prima ancora un mese intero di acclimatazione e anni di allenamenti passati a immaginare il momento dell'ascesa e dell'ascesi finale. Ora quassù l'aria è rarefatta e questi uomini si sentono deboli come vecchi, provano anticipata l'estrema sensazione del corpo che pur volendo non riesce a eseguire i comandi della mente. 
Per arrivare al campo avanzato del colle nord si deve salire fin quasi a settemila metri scalandone trecento di strapiombo ghiacciato. Stamattina è l'ultima speranza di poterci provare, di provare ad arrivare fino a quei benedetti maledetti ottomila. Verso la fine della notte hanno previsto una breve calma di vento, fino a inizio mattinata. Non più di cinque ore, un minuscolo spiraglio in questa tempesta di ghiaccio che dura ormai da due settimane. 
Cinque ore non sono poche per salire ma la difficoltà non sta in questo: in cinque ore bisogna riuscire a salire ma anche a scendere, altrimenti molto semplicemente si muore. Andare e tornare, questo è il vero senso della cosa, uno scalatore deve essere abbastanza forte non solo per arrivare in vetta ma per saper rientrare al campo base. E ritornare è la parte più difficile: l'ottanta per cento degli incidenti avviene sulla via del ritorno. 
Una volta lasciato il campo avanzato sarebbero entrati nella Zona della Morte, dove a oltre quaranta gradi sottozero, nel vento e nella tempesta di neve, la morte per congelamento è ben più che un'eventualità. Sulle ferrate e sulle cordate di fronte a loro, la loro vita sarebbe stata costantemente in pericolo, a rischio di rimanere congelati o senza aria o senza ossigeno. Partirono in cinque ed erano abbastanza. All'una di notte, nel buio, a cercare di passare per quella minuscola finestra. 
Ci volle più di un'ora prima che le luci avanti all'alba iniziassero a illuminare un poco la parete bianca e il sentiero lungo il crepaccio nel ghiaccio. Dal campo li seguirono coi binocoli, li scorsero che si muovevano lentamente nel gelo infinito, li videro sfuocare nel grigio e nell'azzurro assoluti. E loro stanchi, infinitamente sfiniti e deboli fino al punto che ogni passo era lui da solo una intera scalata. 
Furono due i primi a voltarsie decidere di ritornare, furono due a riconoscere di non riuscire, di non trovare più forze per affrontare l'immensa natura che gli si parava di fronte. Due tornarono e due salirono, scomparendo presto alla vista. Il quinto rimase in mezzo, restò indietro, sentivamo che lo chiamavano alla radio, che gli ordinavano di scendere, che lo supplicavano di tornare ma lui non sentiva, o non voleva sentire e diventava lentamente un puntino nella distanza. Da qui pareva fermo ma sapevamo che avanzava, lo faceva lentissimamente ma avanzava, come una goccia d'acqua quando si si trasformava in gelo lui continuava piano per la sua strada e lo seguirono con il binocolo fino a che, a un certo punto, anche lui scomparve nelle nebbie della montagna più grande del mondo.
Sono Maxime Chaya, sono un libanese lungo e stretto come un finanziere di Predazzo e ora salgo per il crepaccio nella Zona della Morte dove l'altitudine estrema blocca perfino la digestione e il mio corpo inizia a consumare i suoi stessi tessuti per trovare un residuo di energia. Sono Maxime Chaya e ho portato fino a quassù sulla cima la mia bandiera: due righe orizzontali rosse e una bianca al centro con un bell'albero di cedro di quelli delle nostre montagne, di quelle montagne di terra e sassi che chiudono il Mediterraneo verso est. Sono Maxime Chaya, calzerò anche male in quel completo giacca e cravatta sempre troppo largo e lungo ma adesso da qui, in cima al mondo, vi guardo tutti laggiù. E resto qui per un po', a pensare a voi e a pensare a me, a quello che sto facendo ora, quello che c'è stato prima e quello che si sarà dopo. Sono Maxime Chaya, mi sento proprio bene quassù. Ma ora è tempo di tornare.
Maxime lo sapeva benissimo che il ritorno è piu difficile dell'andata. Lassù in vetta, guardando giù al mondo trovò una riserva di energie che nemmeno lui pensava di possedere, le trovò come il vecchio Mosè  trovò le tavole della legge in un giorno di cinquemila anni prima sulle sue montagne libanesi. Ma ora, scendendo, Maxime è esausto come un legno il cui fuoco si è consumato lentamente e anche lui si consuma, un passo dopo l'altro. L'ottanta per cento degli incidenti avviene durante la discesa, si ripete mentalmente per tenersi vigile giù per le corde, giù per il crepaccio, giù per la Zona della Morte. L'ottanta per cento degli incidenti avviene in discesa si ripete in continuazione fino a quando incontra quel cumulo di neve che li non ci dovrebbe stare. E non ci dovrebbe stare perchè quel cumulo di neve è un corpo. 
Maxime lo sa benissimo che la strada del ritorno è lastricata dei corpi di tutti gli alpinisti che non ce l'hanno fatta. Perchè lassù, dove ogni passaggio è troppo difficile e angusto anche solo per pensare di poterli portar giù, giacciono tutti gli Oetzi di tutti i Similaun del mondo, lassù sono sepolte nella neve tutte le mummie perenni, in quel ghiaccio azzurro e grigio aleggiano tutti gli spiriti che ti accompagnano saltellanti per la Via della Morte
Questo Maxime lo sapeva benissimo e ci era preparato a passare per il cimitero nelle montagne. Solo che lui stavolta non si è imbattuto in uno dei monumenti all'alpinista ignoto, non ha incontrato un essere di solo ghiacchio e spirito. Quello che Maxime oggi ha davanti sono i rantoli di un uomo che sta morendo, gli ultimi respiri di un essere che è ancora vivo e  contemporaneamente cosciente che ormai non ce l'ha fatta. Maxime sta osservando impotente l'atto finale di un corpo irrimediabilemente congelato dalle ginocchia in giù che sta perdendo definitivamente conoscenza. E non c'è niente che si possa fare, non lo puoi riscaldare, non lo puoi respirare, non gli puoi dare le tue energie o il tuo ossigeno perchè sai benissimo che hai solo lo stretto indispensabile che ti è servito per arrivare lassù e ti servirà per tornare giù al campo base. Quassù, in cielo, ognuno deve bastare per se e Dio - che da qui è più vicino - per tutti. 
E' con infinita tristezza che Maxime e Dorjee, lo sherpa, osservano quell'ipotesi di uomo allo stadio finale, con infinita tristezza e con la certezza di non poter fare nulla per lui. "Stravolto dal freddo e dalla fatica mentre lo osservavo l'unico mio pensiero - dirà Maxine più tardi - era che quell'uomo in quel momento, stava più vicino alla morte di quanto lo fosse alla vita".
Da li in giù solo voglia di tornare, tornare a casa, voglia di bambini, di famiglia. Maxime non si fermò ad aspettare gli altri al campo avanzato, scese giù il giorno stesso e dormì al campo inferiore, sognando un aereo per Beirut.
Maxime Chaya - Steep Dreams: my journey to the top of the world