Maylis de Kerangal Riparare i Viventi

Creato il 24 novembre 2015 da Frmagni
Scritto da: Angelo Di Liberto

Maylis de Kerangal, Riparare i Viventi (Feltrinelli, 2015, € 16, pp. 2018). Che cos’è essere separati da qualcuno che si ama ancora? Che cos’è vivere, sopravvivere? È per cercare di trovare delle risposte a queste domande che Maylis de Kerangal ha composto Riparare i Viventi, un poema di gesti, la canzone intima di una tragedia invertita: la morte che sfugge alla vita, un flusso, un movimento inverso dell’esistenza che ritorna morte per ripiegare a nuovo inizio.


Si parte da un surf, si passa attraverso un ospedale e un aereo per tornare ancora alla canzone del mare. È un continuo riandare all’acqua primordiale, al caos dell’esistenza che cerca una forma senza mai trovarla.
Simon Limbres è un ragazzo come tanti con la passione per il surf, circondato da due amici che saranno testimoni della sua morte. Il mattino è la cornice perfetta per l’inizio della vita. Maylis de Kerangal non indugia nella descrizione dell’onda perfetta, sa che ciò che conta è “il rimanente”, quello che resta quando gli occhi si chiudono dopo avere ammirato un paesaggio. Il sedimento è il filo conduttore di una scrittura che reiventa il nostro modo di esprimerci, di portare i sentimenti, di mettere a tacere i corridoi dell’anima per illuminare il grande salone del cuore.
Quale che sia il sentimento che regna all’interno della storia siamo certi che l’autrice abbia voluto chiudere gli occhi per permettere a ciò che resta di venire a galla, di fluttuare nella sua possanza e di prorompere in una luce diversa, fatta di stasimi e silenzi. La cerimonia dei gesti prende piede e inizia la sua danza vitale.
Intorno a Simon Limbres si svolgono destini, si decidono amori, si gioca a calcio e si canta. Ma come sempre è il tempo ad essere protagonista. Il tempo arbitrario del dolore si scontra con il tempo disperato della memoria.
Il linguaggio secco col quale tutto questo ci viene presentato non ha nulla a che spartire con la struttura canonica del romanzo sin qui sviluppata dalla Letteratura. È il tracciato di un elettrocardiogramma tenuto nella sua normalità artificialmente fino a che non si appiattirà. Siamo nel teatro delle ombre cinesi, siamo nel regno del documentario dell’esistenza, in cui tutto deve risultare seguendo un ingranaggio implacabile. Onda QRS che scandisce sistole e diastole, contrazione e dilatazione.
Ogni parola, ogni segno d’interpunzione è unità di misura del lutto. Non scappa nulla pur di fare chiarezza. Ciascuno di noi legge nelle righe e tra le righe la necessità essenziale della parola che si fa corpo. Nessun pedale spinto verso il sensazionalismo così come alcuna accelerazione al pietismo.
Sarebbe stato semplice cedere alla banalità, al già letto, quando si tratta di lutto. Eppure è proprio quest’ultimo a cambiare forma perché i morti sono assenti. Non vogliono prendere parte alla storia per non sovraccaricarla. Si parla d’amore piuttosto, di generosità, di adesione a valori che facciano di una società come quella francese un luogo in cui integrare umanità a umanità.
Non è tanto il distacco il motivo d’interesse dell’autrice quanto il sedimento che questo può produrre nella nostra vita in cui tutto continua a muoversi verso l’universale indiscriminatamente.
Mentre soffriamo in casa nostra, fuori qualcuno sta guardando una partita di calcio allo stadio, sta facendo l’amore dentro una macchina parcheggiata in un vicolo, sta salvando una vita grazie a un trapianto cardiaco.
La vita è nella sua inafferrabilità, nella sua incapacità a bloccare l’istante, nel suo redimersi continuamente alla ricerca di uno spiraglio che ci permetta di esistere in pace con la nostra coscienza.
La vita è in ciò che ricordiamo di essere non in ciò che è mentre la compiamo. Siamo continuamente alla ricerca dell’onda perfetta. Ci drizziamo sulla nostra tavola, precari, guardiamo all’orizzonte spesso siamo incapaci di scorgere la Bellezza, di gettare il nostro sguardo al di là di ciò che è nelle vicinanze. L’orizzonte è imperscrutabile.
“Una volta fuori, il cielo refrattario li ha abbagliati, livido, sfumature da latte sporco, tanto che hanno abbassato la testa, hanno inchiodato gli occhi alla punta delle scarpe e hanno camminato fianco a fianco fino alla macchina, mani in tasca, naso, bocca e mento nascosti nelle sciarpe, nei colli. La macchina è gelida, è Sean a mettersi al volante ed escono lentamente dal parcheggio – quante volte questa cavolo di sbarra oggi? S’immettono subito su assi secondari, non vogliono allontanarsi dall’ospedale, soltanto sottrarsi al mondo, passare sotto la linea di galleggiamento di questo giorno inimmaginabile, sparire in uno spazio indeterminato, fibroso, in un’infrageografia diafana, a immagine della loro angoscia”.
Eppure, in mezzo a tutto questo, la permanenza dei gesti arcaici non viene annientata dalla routine di esistenze massificate, tecnologizzate. Si pone come roccia inamovibile, unica ancora di salvezza tra le onde alte dei blocchi operatori.
Gesti e azioni semplici come il canto di un infermiere quando lava il suo paziente, la cuffia con la musica nelle orecchie di Simon prima di staccargli la spina; una mano premuta sulla spalla del padre del ragazzo; il suono di una voce patinata da quarant’anni di sigarette della responsabile dell’Agenzia di Biomedicina, sono ciò che continua a farci restare umani.
E poi quel surf dribbla gli scogli, avvista la grande onda, la cavalca e ci porta là dove per un attimo siamo soli col nostro silenzio, riparati, veri.


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