Me la cavo

Da Flavialtomonte

Lascio che la sveglia suoni e neanche ci penso a spegnerla, che i piedi vadano scalzi per la pigrizia di cercare le ciabatte perse – quasi sempre sotto al letto – lascio che le parole sorreggano il peso delle azioni e che le azioni si stanchino di esistere. Che i libri si leggano da soli e i progetti si costruiscano a loro immagine e somiglianza. Lascio anche che il caffè si bruci, lentamente, e che la moka si colori di un nero crostato e maleodorante. Quelle volte guardo l’acceleratore abbassarsi e la musica alzarsi. E lascio anche la mia pelle, la lascio vivere, la guardo bene fuori e dentro, e poi ritorno. Lascio che il personaggio prenda forma a suo volere, e lascio che camminando i passi si accorcino per sentirne il contatto, e poi ritorno.
Il sonno precario, e irrevocabili giornate che risucchiano il sale di un mare cristallino che vuol farsi sentire. Lascio anche quello, e mi lascio annegare di progetti giocosi e futuri, di un’instancabile e forzuta fantasia che vince a braccio di ferro. Vince la carne che nasconde ogni cosa. Così lascio anche la carne, e mi perdo nel nulla dell’improvvisa incertezza della vita. La lascio camminare a passi sicuri, senza mostrare paure. Lascio anche le paure, le lascio alla mia infanzia, ai fantasmi del buio, alle ombre del cortile, ai rimproveri e ai film dell’orrore. Lascio l’infanzia dei giochi, delle barbie dai vestiti costruiti dall’ago e il filo del punto erba delle suore, al campo scuola, alle domenica in Chiesa e a giornate di giochi instancabili e cadute memorabili. Lascio tutto lì, nel naso sulle scale, nel cancello in testa, nella faccia in un giardino, nello scivolone in discesa e sotto un camion parcheggiato. Lascio i giochi e ritorno nel mio nascondiglio, aspettando che arrivi il momento giusto per chiamare “Tana!”

[Quei racconti salvati in bozze che non hai mai il coraggio di pubblicare.
Sono i racconti che conservo nel fondo della valigia, che ogni tanto risalgono, come un singhiozzo.]


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