Medeas è un film bellissimo, sfacciatamente bello. Non se ne può dire altro, è costruito per affascinare.
L’ho visto “in” Sala Web, benedetta iniziativa della Mostra del cinema di Venezia, che permette a film che difficilmente vedranno un’adeguata e meritata distribuzione, di essere apprezzati anche da chi a Venezia non c’è stato. Questo film di Andrea Pallaoro (ennesimo regista italiano esportato) meriterebbe eccome di girare l’Italia intera, di essere visto e rivisto, nelle sale, nelle università, nei licei classici quando si studia Euripide.
Medeas è una rivisitazione del mito greco forse più conosciuto, l’ennesima si potrebbe dire, stupisce invece quanta freschezza si possa attingere a certo materiale, eterno, sempreverde. E non pochi rischi si corrono a contatto con soggetti così imponenti, ma qui non c’è riverenza, anzi al mito viene infusa ancora maggior ricchezza, sopratutto attraverso lo spostamento del soggetto dalla figura femminile, a quella maschile.
Le scene sono girate in California, una terra che già di per sé isola le figure umane, le mette a diretto confronto con una natura prorompente, invadente, da cui non si può prescindere. Pallaoro dimostra di conoscere benissimo i contrasti messi in campo: tra uomo e natura, tra uomo e donna, tra l’uomo e sé stesso, le proprie forze, le proprie idee.
Ad agire sulla scena è una famiglia, piena di affetto e coesione, piena di spirito. Le prime scene attorno ad un piccolo laghetto sono di una purezza sublime: il vento, gli abiti, le canottiere, i capelli, le spighe, i sorrisi, le carezze, gli schizzi d’acqua e i piedi nudi sono un tutt’uno. L’uomo è natura e la natura è quanto mai umana. L’uomo, sembra voler dire Pallaoro, è dunque anche istinto, pulsione, forza e fragilità. Di ragione, intelligenza qui si parla poco, non siamo sul piano del Logos, e un’indizio si fa lentamente palese: questa famiglia quasi non parla, la madre è sordomuta, gli altri quasi la imitano, per rispetto, per abitudine, o forse perché così è e basta, come il mito vuole, e tale mancanza diventa strumento cinematografico.
La donna, Christina, ha un apparecchio acustico, in una scena vediamo che lo prova, lo tenta, o si lascia tentare, ma lo toglie subito, lei non ascolta, è una donna tutta occhi e gesti, una donna emotiva, bellissima e cosciente della sua bellezza. I figli sono cinque, una ragazza che ascolta musica italiana, un ragazzo che lavora con il padre, un ragazzino più grande della sua età, un bambino perfettamente della sua età, e un neonato il cui pianto è forse l’unico a parlare davvero. Il padre, Ennis, lavora in una fattoria, tra latte, mucche e debiti. La barba, le spalle larghe lo fanno virile, ha un cappello e le scarpe piene di polvere, sembra venir fuori dalla prateria di un western, un uomo integro, che prega prima dei pasti ed ha lo sguardo sempre all’orizzonte.
Il film racconta la sconfitta della sua determinazione, della sua rettitudine, è un uomo che verrà tradito, la cui moglie porterà in grembo un figlio non suo, ma è un uomo che ama. Ama così forte che non saprà reagire su sua moglie, non le saprà far nulla pur provandoci, siederà al suo angolo e piangerà. Sa che la moglie è più anima che corpo, in lei sono più forti le emozioni che le sensazioni fisiche, picchiarla servirebbe a nulla.
C’è ovunque, in ogni scena, una tensione tra il dentro ed il fuori, una continua lotta tra forze centrifughe e centripete, tra dispersione e compattezza. La figlia maggiore ascolta e canta canzoni italiane, forse vuole fuggire (compiendo il percorso inverso a quello del regista dall’Italia alla California). La moglie nonostante un marito bello, forte, rispettoso ed innamorato cerca il piacere dal benzinaio. Il figlio che sa della madre si rinchiude in sé stesso, vaga da solo. L’altro figlio cerca il suo equilibrio tra adolescenza e peccato. Ognuno rappresenta una direzione, un’ incrinatura senza soluzione apparente.
Pallaoro ci pone di fronte a tutto ciò con misura, più con gli strumenti dell’incanto che con quelli dell’incisività. Preferisce mettere in scena il lieve sgretolarsi della simbiosi delle prime scene che affidarsi ad azioni di rottura, il dialogo è quasi inesistente, o meglio indifferente. Potrebbe essere un film muto, con soli effetti sonori e non perderebbe un filo di bellezza. Le uniche parole vere sono nel momento più drammatico: Ennis, quando vorrebbe reagire alla notizia del sesto figlio non suo, urla sommessamente a Christine “Io sono tuo marito, io sono tuo marito”, ripetendolo come fosse una formula magica con cui cambiare le cose, o come un’affermazione dentro la quale trovare ancora un appiglio, l’impressione che ancora non tutto è perduto.
Invece tutto lo è, è il destino: tante forze non hanno trovato un equilibrio. Come la natura quando non trova il suo equilibrio è costretta a mutare e sconvolgere il suo ecosistema, ecco per quella famiglia una giornata diversa: Ennis si rade la barba, vanno a trovare il nonno, qui Pallaoro si incentra sul momento del saluto, sottolineandolo e suggerendone il significato a chi già presuppone il finale.
Il rumore di un motore acceso e pochi immobili dettagli bastano a presentare la soluzione di questa tragedia cinematografica. Senza enfasi riesce a commuovere: un capolavoro di regia.
Sottile ma azzeccatissima la scelta di non collocare la narrazione in un tempo o in un luogo preciso: le auto anni 50, la radiolina con cuffie, il market, le tecnologie della fabbrica, sono evidentemente sfasate e la casa è così isolata dal resto da sembrare irreale. Tutto come in un racconto mitico dove l’incastro narrativo non ha bisogno di determinazioni, se non quelle necessarie.
Il silenzio prevalente sposta tutta l’attenzione sulle immagini, calcolatissime ma mai barocche, l’unica pecca forse è nei costumi, negli arredamenti, che in certi passaggi sembrano uscire più da una foto pubblicitaria su una rivista di moda, con il gusto vintage-campestre oggi tanto in voga, che da una vera vita di campagna. Ma certo qui non conta il realismo, quanto il simbolismo.
Gli spazi angusti, le minime possibilità di dialogo di Wunderkammer qui prendono respiro, Pallaoro ha tratto beneficio nel passaggio al lungometraggio, sa come gestire le tensioni, come riempire una storia scarna e renderla capace di lasciare il segno. Medeas fa parte di quella bellezza a cui non si fanno domande.
Non bisogna chiedere spiegazioni, qui siamo nell’inesorabile e basta guardare.