Un luogo comune strettamente legato alla pratica della meditazione è quello che si medita per fare il ‘vuoto mentale’. Per la mia esperienza, meditare non è fare ‘il vuoto’ nella mente, casomai fare ‘quiete’, ossia riuscire ad osservare i pensieri e le emozioni senza che essi ci condizionino eccessivamente. Lo sviluppo di una tale equanimità è in genere un passaggio abbastanza avanzato della pratica meditativa. Siamo tutti coscienti di come certi pensieri ed emozioni sappiano sedurci, spingerci all’azione inconsulta o ossessionarci la notte.
Nella pratica meditativa si può sperimentare un ampliamento del nostro spazio interiore, una forma di travalicamento o sospensione del pensiero ordinario; ciò avviene però attraverso il collegamento con una Mente più vasta della nostra e non con la regressione a stati semi-coscienti o ipnotici.Non si tratta infatti di ‘perdere la consapevolezza di sé’ quanto di ampliare tale consapevolezza finché include anche le altre forme di vita, finché ci percepiamo costantemente ‘in relazione’ e ‘connessi’ anche quando siamo soli. Tale espansione, sia verticale che orizzontale, non ha nulla a che fare con una ‘fuga dalla realtà’ in qualche fantomatico mondo astrale o immaginario.Lo scopo della meditazione è renderci più consapevoli, non inebetiti o stralunati. Pur essendo una pratica che aiuta a costruire un rifugio di pace sicuro e incrollabile all’interno di noi, tale luogo non diventa un eremo mentale che ci dissocia dalla realtà. Anzi, va a costituire quella sorgente di forza che ci aiuta a comprendere meglio la nostra vita, sia ‘spirituale’ che ‘materiale’, sostenendoci mentre cerchiamo di agire coerenti con i nostri più alti valori.
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