Dopo queste cose, Gesù si manifestò nuovamente ai discepoli sul mare di Tiberiade. Si manifestò così: stavano insieme Simon Pietro, Tommaso detto Didimo, Natanaele di Cana di Galilea, quelli di Zebedeo e altri due tra i suoi discepoli. Dice loro Simon Pietro: «Vado a pescare». Gli dicono: «Veniamo anche noi con te». Uscirono, salirono sulla barca e, in quella notte, non presero nulla. Essendo poi già mattina presto Gesù stette sulla riva, ma i discepoli non sapevano che fosse Gesù. Dice dunque loro Gesù: «Ragazzi, non avete del cibo?» Gli risposero: «No». Egli allora disse loro:«Gettate la rete alla destra della vostra barca e troverete». La gettarono, dunque, e non erano più capaci di tirarla per la quantità di pesci. Dice allora il discepolo, quello che Gesù amava, a Pietro: «È il Signore!» (Giovanni 21:1-7a)
Il testo su cui vorrei riflettere quest’oggi insieme con voi è quello che è stato scelto dalle chiese valdesi del sud dell’Argentina per il primo dei tre incontri annuali previsti. Si tratta di un testo ricchissimo di dettagli che ci obbligano ad esercitare la fantasia per poterlo comprendere nella sua profondità e nei suoi rimandi: la superficie di un testo, infatti, è ciò a cui non dobbiamo mai limitarci, poiché ogni racconto, in verità, rappresenta un invito ad andare al di là di ciò che appare manifesto e che, al contrario, abita in quei recessi di un brano che si dispiegano soltanto attraverso l’immaginazione, che per sua stessa natura ama spingersi oltre le interpretazioni convenzionali, generalmente piuttosto piatte e deludenti. Dunque, la sfida che ogni narrazione ci rivolge è quella di cogliere che cosa si celi, in verità, dietro e oltre ciò che sembrerebbe manifesto.
Prima di lui, in Galilea aveva fatto ritorno almeno una parte dei suoi discepoli: l’evangelo giovanneo li chiama sempre così, non usa (se non una sola volta e in senso critico riguardo alla pretesa autorità conferita dal ruolo – cfr. Gv 13:16) il termine apostoli, non riconosce ai cosiddetti dodici alcuna prerogativa specifica: quella giovannea è una comunità di eguali, senza alcuno che vi primeggi. Il nostro testo fa il nome di alcuni dei presenti: e dietro ciascun nome è racchiuso un simbolo. Anzitutto vi è Simon Pietro, l’apostolo per eccellenza dei vangeli sinottici, che in tutta la vicenda della passione narrata nel quarto vangelo (dal cap. 13 in avanti) è figura dell’incomprensione. Poi viene menzionato Tommaso, detto Didimo, ovvero “gemello”, simbolo del dubbio inestinguibile e in questo, dunque, gemello, anzitutto, di ognuna ed ognuno di noi. Poi si fa il nome di Natanaele, l’israelita elogiato da Gesù che, già nel primo capitolo dell’evangelo, confessa la fede in Gesù come «Figlio di Dio» (cfr. Gv 1:49). Poi, curiosamente, vengono nominati “i figli di Zebedeo”, pescatori menzionati nella tradizione sinottica tra i primi discepoli che Gesù chiama con sé ma che, significativamente, non compaiono nel vangelo giovanneo: e qui si può vedere all’opera la mano di un autore successivo che ha inteso armonizzare la tradizione giovannea e quella sinottica. Infine, vengono menzionati, ma non espressamente nominati, altri due discepoli: di uno dei due scopriremo più avanti l’identità; l’altro, significativamente anonimo, simboleggia la presenza sulla scena di ciascuna e ciascuno di noi che, all’anonimato, può conferire un nome ed una storia.
D’improvviso Simon Pietro comunica ai suoi compagni che si recherà a pescare: e loro si dichiarano immediatamente disposti ad andare con lui.
La pesca, significativamente, si svolge di notte, quando, nel cielo come nei cuori, regna l’oscurità: il risultato, narra il nostro testo, sarà infruttuoso.
In lontananza, non riconosciuta, si profila la sagoma di Gesù, che emerge, non a caso, insieme con le prime luci che giungono a dissipare le tenebre: simbologia costante di tutto l’evangelo giovanneo, nel quale Gesù è sempre connesso alla luce e alla chiarezza che essa porta con sé. Il nostro racconto ci dice immediatamente quale sia il carattere, del tutto peculiare, di questa manifestazione di Gesù: pur mostrandosi, infatti, i suoi non lo riconoscono. Anche questo è un elemento messo costantemente in risalto nel quarto vangelo: i discepoli, dunque noi, faticano sempre a riconoscere Gesù dopo la sua morte e resurrezione, così come faticavano a comprenderne le parole quando egli era ancora in vita. Né Gesù né il suo annuncio, difatti, contrariamente a quanto le chiese hanno sovente predicato e, non di rado, inculcato, abitano l’evidenza, la quale, invece, è uno spazio estraneo all’evangelo, poiché lo contraddice assai più di quanto non lo faccia trasparire. Gesù e l’evangelo, al contrario, si incontrano nel nascondimento, si donano nell’incontro e nell’inatteso e, per ciò stesso, prima di essere conosciuti hanno bisogno di essere ri-conosciuti, ovverosia, come vuole letteralmente il termine, di essere conosciuti ogni volta di nuovo. Gesù non si dà a conoscere nell’immediatezza dell’evidenza, ma si mostra con il volto di chi non conosciamo e che, pertanto, siamo propensi ad ignorare, quando non direttamente a respingere. Gesù chiede a noi discepole e a noi discepoli lo sforzo di operare il riconoscimento, che è quello compiuto da quante e quanti non si accontentano di scorgere il volto di Dio in ciò che già pretendono di conoscere e di aver compreso una volta per tutte.
Vivere la fede significa essere chiamate e chiamati, ogni giorno di nuovo, a compiere il riconoscimento, di Dio come di sé, poiché né Dio né noi ci muoviamo nella dimensione dell’identico, ma ci trasformiamo incessantemente nell’incontro e nella domanda. Ed è proprio con una domanda, infatti, che Gesù si rivolge ai suoi e, dunque, a noi: «Avete del cibo?». Si tratta di un’immagine bellissima, nella quale Gesù chiede a noi se abbiamo di che nutrirlo e di che nutrirci: ma la risposta, lo sappiamo, è un triste e secco «no». Sovente, lo sappiamo, ci affanniamo invano in cerca di un senso al quale crediamo che ci dia diritto di attingere il nostro febbrile affaccendarci; se attendiamo scrupolosamente e infaticabilmente al nostro lavoro, ciò che ci nutre verrà da sé: tacito, inconfessato teorema del calvinismo «puro e duro». Ma i teoremi, si sa, con la fede e con la sua natura flessibile e cangiante, cozzano inevitabilmente. Lo sforzo non sta alla radice del senso che, come tale, non si può estorcere; alla radice sta la disposizione: all’azione, anzitutto, perché è necessario essere intenti a pescare; ma anche all’ascolto e, più ancora, forse, alla novità, vero e proprio spettro di tutte le tradizioni ecclesiastiche, che la rifuggono e la respingono. Gesù, infatti, dà un suggerimento ai suoi e, dunque, a noi: gettate la rete in una direzione diversa. Il nutrimento non è figlio della ripetizione: il senso non ci proviene dal consolidamento delle tradizioni; di qui, tutt’al più, ci proviene la sicurezza, che è ciò di cui, in verità, più andiamo in cerca. L’appello di Gesù, invece, ci chiama ad osare la novità: «Avete sempre gettato in una direzione le vostre reti, ritraendole vuote. Perché, allora, non gettarle altrove? Non ripetete: piuttosto, osate, come ho fatto io. Non attendetevi il plauso: la novità non è mai la benvenuta, specie nella ricerca di quel senso di cui le religioni rivendicano il monopolio».
Troppo spesso concepiamo la fedeltà come ripetizione: Gesù ci invita a comprenderla e a praticarla come innovazione, come ricerca, come audacia; ci invita a guardare e a muoverci in direzioni nuove, a volte persino diametralmente opposte, rispetto a quelle a lungo percorse.
Anche la stanchezza che connota oggi le nostre chiese, che così a lungo hanno fatto e continuano a fare della tradizione il loro baluardo e il loro vanto, è figlia di questa incapacità di osare la novità, senza la quale non soltanto le comunità, ma lo stesso evangelo rischia di svuotarsi, perdendo slancio, colore, calore. Per recuperarli dobbiamo rimanere aperti, con lo sguardo indirizzato e le braccia tese verso l’esterno, verso quel mare che ci nutre e che circonda le barche vuote dei nostri templi: dobbiamo uscire, levare le ancore, prendere il largo, riconoscere che tutto quanto ci alimenta viene da fuori, da quel mondo che, come chiese, non sappiamo più incontrare ma soltanto giudicare. Quel mondo che aspettiamo sempre che giunga sino a noi, senza che sappiamo andargli incontro, non per ammaestrarlo, ma per lasciarcene ammaestrare, provocare, interrogare.
Uno di coloro che hanno osato, «il discepolo che Gesù amava», d’improvviso comprende chi si celi dietro il volto dello sconosciuto: opera il riconoscimento, osa la novità che è figlia di un ascolto autentico, aperto all’inaudito, a quanto prima non si era stati capaci di percepire, a ciò che la ripetizione impedisce di cogliere. Lui è l’ultima figura simbolica del nostro racconto, anche lui senza nome: poiché attende di assumere il volto e la storia di ciascuna e ciascuno di noi, discepole e discepoli di un annuncio che ci chiama a vivere la fede come novità.
Pastore Alessandro Esposito - www.chiesavaldesetrapani.com