Allora, facciamo un cosa un po’ diversa dal solito: invece della classica introduzione modello tema di terza elementare su chi/cosa sono i Megadeth, con un tot di chiacchiere sparse appresso tanto per dare un po’ di corpo al tutto e fino all’ovvia conclusione chiarificante sul perchè e percome Dystopia è sostanzialmente una mezza schifezza, facciamo, dicevo, il primo track by track della merda da quando scrivo su Metal Skunk, tanto per non farmi mancare nulla rispetto alla stimata concorrenza. Oddio, stimata per modo di dire, che di media non ci capiscono un cazzo di nulla. Vabbè bando agli indugi, premete quel tasto con la freccia sul lettore che cominciamo:
– The Threat Is Real. Il riff d’apertura, con un vago retrogusto mediorientale, è quanto di più scontato credo d’aver mai sentito in un disco dei Megadeth almeno dai tempi di The World Needs A Hero. Boh. Il pezzo in sè poi non è granchè, la ritmica delle strofe è presa pari pari dalla parte strumentale di Ashes In your Mouth, che tutto considerato non sarebbe manco male se non fosse che sfocia in un ritornello entusiasmante come un calcio in bocca. Ero molto curioso di ascoltare il lavoro di Kiko Loureiro, ma poi ho fatto fatica ad arrivare alla fine dello scambio tra lui e Mustaine per la noia.
– Dystopia. Una Hangar 18 condensata e uscita maluccio. Pensateci, la struttura è quella: l’inizio e le strofe affidate alle chitarre intrecciate, Kiko Loureiro che svolazza pindarico dalle parti dei ritornelli, poi a metà canzone un cambio drastico di ritmica e a seguire altro assolo fino alla conclusione. Peccato che il suddetto cambio ritmico non abbia la stessa resa di quello di Hangar 18, che suonava tanto fluido dove questo è molto più legnoso, particolare dovuto principalmente al fatto che mentre nell’originale l’assolo di quella specifica e tanto delicata sezione era affidato a Marty Friedman, con il risultato che conosciamo tutti, qui l’onere se l’è assunto Dave Mustaine, che per carità come solista non è affatto male ma di sicuro rispetto a Kiko Loureiro non è il più adatto alla parte. Carino il finale, però.
– Fatal Illusion. Già detto, una mezza merdata.
– Death From Within. Un po’ come The Threat Is Real, belle strofe, il resto assai meno. Che poi le strofe sono una versione riproposta di quelle di Devil’s Island e la voce di Dave Mustaine sopra ci sta chiaramente bene, di sicuro grazie all’effetto nostalgia che si genera inevitabile. Peccato per il ritornello e per il lavoro di chitarra di Loureiro, fiacco come non mai. Ma circa ciò che penso di Loureiro in questo disco abbiate ancora poca pazienza, che sto per arrivarci.
– Bullet To The Brain. Ecco, questo è l’unico pezzo di tutto il cd ad avermi invogliato a riascoltarlo, specie il ritornello che ha una linea melodica molto accattivante. Pure qui ci sono vari cambi di tempo, venuti fuori mediamente bene tranne dalle parti dell’assolo, che ve lo dico a fare. Comunque il ritornello salva tutto. Insomma un po’ meglio, dai.
– Post American World. Anche questa sarebbe stata bene pure su The World Needs A Hero, che mi pare spompata il giusto.
– Poisonus Shadows. Dave Mustaine ha dichiarato che ‘sto pezzo è il suo preferito del disco, il che la dice lunga sullo stato mentale in cui versa. Che poi non che chissà quale genio del male fosse prima, ma negli ultimi vent’anni è peggiorato assai. Secondo lui questa canzone dovrebbe essere figlia del lavoro fatto con l’orchestra di San Diego un paio d’anni fa, dove si produsse nella riproposizione dal vivo di roba tipo La Cavalcata delle Valchirie, le immancabili Quattro Stagioni di Vivaldi e qualcosa di Bach. Insomma, il medio del medio repertorio classico che praticamente conosce chiunque, nulla di che, se non fosse che in seguito a questo paio di serate con l’orchestra il vecchio Dave avrebbe imparato “trucchi” di armonia, tipo le inversioni, che ha usato in seguito per comporre il brano. Mah. Cioè, non che sia poi così tremenda, solo che bisognerebbe spiegargli che la più brutta su Youthanasia si mangia Poisonus Shadows in un boccone, inversioni armoniche o meno. Ma poi, anche lì: Youthanasia è un album stilisticamente indirizzato verso una direzione ben precisa, frutto di una scelta altrettanto precisa in fase compositiva, ovvero quella dell’ammorbidimento sonoro dei Megadeth in funzione di una maggiore fruibilità melodica; preso in tal senso, quindi come esperimento, Youthanasia è un album notevole, pure se assai differente rispetto ai Megadeth di Countodown To Exctintion oltre che completamente avulso da quello stesso gruppo che registrò Rust In Peace appena pochi anni prima. Eppure Youthanasia è riuscito, riuscitissimo, la svolta melodica può non piacere ma ha un senso compiuto, gli arrangiamenti sono curatissimi ed i pezzi funzionano alla grande. Invece adesso succede che nel bel mezzo di un album che dovrebbe segnare il ritorno a sonorità più dure rispetto alle due cagate precedenti, Thirteen e soprattutto Super Collider, cannibalizzando ove possibile la propria stessa discografia nel tentativo di tornare a pestare pesante, Mustaine piazza ‘sto pappone melodicamente raffazzonato, spacciandolo oltretutto per chissà quale invenzione o fortunata intuizione musicale avuta tramite la rilettura dei classici dei classici. Chissà cos’avrebbe partorito se al posto di Wagner qualcuno gli avesse fatto ascoltare, chessò, i Rondo’ Veneziano spacciandoglieli per un misconosciuto compositore barocco. Sai che roba.
Ragazzi, oggi Dave ci spiega le inversioni
– Conquer Or Die! Quando è uscita la notizia che Kiko Loureiro sarebbe stato il nuovo chitarrista dei Megadeth più che scettico ero, ripeto, molto, molto curioso. Diciamo che dopo Marty Friedman, e con l’eccezione Chris Poland su The System Has Failed, tutti i chitarristi dei Megadeth sono stati uno più insignificante dell’altro, a partire da Al Pitrelli, passando per Glen Drover fino a Chris Broderick, sicuramente tanto più dotato tecnicamente quanto persino più anonimo, dal punto di vista stilistico, degli altri sfigati predecessori. Un monolite monoespressivo, sia su disco che come presenza dal vivo. E quindi su Loureiro ci speravo, un po’ perchè con gli Angra è stato sempre spettacolare (lui, gli Angra dipende), un po’ perchè ha anche una valida carriera solista che spazia dal metal, al rock, alla fusion, fino alla musica brasiliana. E invece niente, piatto come il disco su cui suona. Cioè, si sente che è lui, mica no, ma non di primo acchito e di certo non se uno non sa che è lui a suonare. Comunque la sua personalissima voce sulla chitarra a tratti emerge. A tratti. Più che altro si percepisce che è forzato, o forse poco a suo agio, non so. Il risultato è, appunto, che in questo strumentale di tre minuti, in pratica uno spazio tutto suo, viene fuori un po’ del Kiko Loureiro che è possibile ascoltare se suona extra Megadeth. Altrimenti ci si accorge che è lui solo raramente e prestandoci parecchia attenzione, come se sia fuori fuoco, un po’ lontano dal contesto. Peccato.
– Lying In State. Pure questa non è male, onestamente. Poco più veloce delle altre, bei riff taglienti, thrashettona piacevole al punto che se il disco finisse con questa sarebbe un mezzo sollievo, ed invece…
– The Emperor. Che cagata, ragazzi miei. Su “Who do you think you are, some kind of superstar” mi ha pure fatto pensare alle defunte Spice Girls. Bleargh.
– Foreign Policy. Una cover dei Fear, ampiamente inutile salvo che per aumentare il minutaggio del cd, che senno’ costava troppo. Che poi considerando la qualità intrinseca costerebbe troppo pure se lo regalassero come sottobicchiere per la birra, onesto.
E quindi? E quindi niente, io mi chiedo che cazzo ha ascoltato il tizio random a cui sto disco è piaciuto, epperò peccato giusto per la produzione un po’ fredda. Cioè, la produzione “fredda”, come se i Megadeth debbano suonare come, boh?, il Santana anni settanta. Il punto è che i Megadeth dovrebbero suonare bene, cioè essere godibili, a prescindere da freddi o caldi o temperatura ambiente. E questi qui, signori miei, godibili non lo sono affatto. Sempre che per voi i Megadeth non siano quelli di Super Collider e Thirteen, e allora buongiorno che questo è un discone. Ma così è barare, no? Gia’. (Cesare Carrozzi)