Che belli erano questi vecchi film della Hammer: scenografie inquietanti e musica dall’incedere incalzante fin dai titoli di testa, come una promessa di brivido immediato e senza tregua.
“Gorgon – Lo sguardo che uccide”, anno 1964, comincia proprio così, con sullo sfondo l’immagine di un goticissimo castello abbandonato, ma sempre maestoso, nell’Europa centrale dei primi del ‘900. La regia è di Terence Fisher che girò, tra gli altri "Dracula il vampiro" (1958), "La maschera di Frankenstein" (1957), "Il mostro di Londra" (1960), "Le spose di Dracula" (1960)...
Il sipario si apre all’interno di una casa dove un uomo e la sua amante discutono. Lei è incinta e lui le dice che si prenderà le sue responsabilità, anzi andrà subito in paese per parlare con il padre di lei. Lui è Bruno Heitz (Jeremy Longhurst), un pittore, e lei Sascha Cass (Toni Gilpin). Quando Bruno esce di casa, lei lo insegue per cercare di fermarlo, ma rimane indietro, da sola nel bosco, come nella più classica delle fiabe dei fratelli Grimm. Nel bosco, immobile nella notte, buio e virato di verde, l’unica nota di colore è il suo vestito azzurro. Non appena la telecamera inquadra la luna piena, seminascosta dalle nuvole, in un cielo troppo chiaro per essere un cielo notturno, sentiamo che qualcosa sta per accadere. Un urlo. La donna grida in preda all’orrore guardando qualcosa – o qualcuno – che è fuori campo e noi non possiamo vedere: Sascha si porta le mani al volto, poi cade riversa. Quando viene ritrovata la polizia pensa che sia stata uccisa da Bruno e scatena una caccia all’uomo, ma viene ritrovato anche lui cadavere, impiccato.
La figura della Gorgone è tra le meno sfruttate al cinema (forse perché è “statica” e non consente molta varietà nella rappresentazione degli omicidi), anche se la collocazione temporale delle sue apparizioni durante il plenilunio potrebbe far pensare ad un tentativo di riallacciarla a quella del licantropo - per associazione di idee, se non altro. Qui non si tratta di Medusa, che il mito vuole uccisa da Perseo, ma della sorella Megera, che secondo il prof. Heitz sarebbe ancora in vita e avrebbe lasciato la terra natia per rifugiarsi nell’Europa continentale. Sempre secondo lui ci sarebbe stata una terza Gorgone, anch’essa uccisa nell’antichità. Tutto questo è mera invenzione, o forse lo sceneggiatore confuse il mito delle Gorgoni con quello delle Erinni. Vedrò quindi in seguito di fare un po’ di chiarezza, ma prima vorrei dire ancora qualcosa a proposito del film. Se avete intenzione di guardarlo vi avverto fin da subito che verrete spoilati. Quindi saltate il prossimo paragrafo se non volete conoscere in anticipo la vera identità di Megera.
Alla fine della visione molte cose rimangono un mistero: cos’abbia scatenato l’apparire improvviso di Megera e perché si nasconda nel castello, perché possa celarsi sotto sembianze umane, quali sono i suoi pensieri e sentimenti, se ne ha. Come Medusa, Megera è un’assassina che non agisce per sete di sangue: non è una cacciatrice, uccide per caso, eppure è consapevole del suo potere e, una volta individuata una vittima, la insegue con sguardo selvaggio, estatico, come se lo svolgersi degli eventi fosse inevitabile. Ed è bene concentrarsi sullo sguardo, perché la testa di serpenti è resa con un effetto veramente posticcio e forse anche per questo l’aspetto della creatura ci viene mostrato bene solo alla fine del film: d’altronde erano gli anni ’60. Nella mitologia Medusa era in grado di uccidere anche da morta e questa è la principale differenza con il film dove Megera, decapitata, diventa inoffensiva. Personalmente mi ha colpito molto il contrasto tra Megera e il suo alter ego, la bella e appassionata Carla: l’una un mostro condannato alla solitudine, l’altra una creatura affascinante che si nutre d’amore, inconsapevole dell’esistenza del suo doppio il cui spirito regolarmente prende il sopravvento sul suo, eppure inconsciamente legata a quei luoghi e a quello che evidentemente percepisce come il proprio fato. Carla è allo stesso tempo mostro e vittima, mentre il vero colpevole è Namaroff: pur essendo a conoscenza della maledizione che l’ha colpita, per amore lo tiene segreto. Potrebbe almeno rivelarlo a lei, magari chiederle il suo assenso a tenerla sotto chiave nelle notti di plenilunio, invece preferisce non fare niente, senza curarsi del pericolo a cui espone gli abitanti del paese, incluso se stesso.
A farla da padrone nel film sono le relazioni sentimentali, sia filiali sia amorose, ma nessuna è destinata al lieto fine; mentre scarsa parte hanno le indagini come se comunque, quando i sentimenti sono al parossismo, il finale della storia fosse già stato predeterminato e aspettasse solo di compiersi.Vorrei spendere qualche parola anche in merito alla pietrificazione che Megera provoca nelle sue vittime: nel film il processo non è immediato, anzi richiede del tempo, forse qualche ora (è quello che succede al prof. Heitz, ad esempio) - cosa un po’ forzata, forse, ma necessaria per lo svolgersi degli eventi, a meno di un cambio di sceneggiatura…
Caravaggio, Testa di Medusa, 1599
E adesso, come promesso all’inizio di questo post, è tempo un po’ di mitologia. Le Erinni, o Furie, erano divinità minori della Grecia antica forse nate dal sangue di Urano, sgorgatogli dai genitali quando Crono lo evirò, o forse nate dalla Notte, personificavano la furia, appunto, e la vendetta, ma anche il rimorso: perseguitavano i trasgressori delle leggi naturali, chi violava l'ordine morale e soprattutto chi commetteva delitti di sangue, ovvero i crimini talmente orrendi che meritavano l’attenzione di un’autorità più alta di quella dell’uomo. Venivano rappresentate come geni alati, con serpenti invece di capelli e in mano torce o fruste, sempre urlanti. Megera era “la maligna” o “l'invidiosa” e Tisifone “la vendicatrice”, mentre l’etimologia di Aletto è incerta: potrebbe significare "colei che non riposa", cioè "colei che non dà requie", oppure "l'indicibile", ovvero "colei il cui nome non può essere pronunciato". Per placarle il popolo le chiamava anche Eumenidi (le "benevole") o Semnai (le "venerabili"), gli recava offerte e gli sacrificava delle pecore nere; mentre al giorno d’oggi, curiosamente, sembra che in ambito esoterico le Erinni siano considerate dei veri e propri demoni ed esistano dei veri e propri cerimoniali per evocarle (il condizionale è d’obbligo: ho trovato questa notizia in giro per la rete, ma non sono stato in grado di verificarla).
Le Gorgoni invece erano figlie di due divinità marine, Forco e la mostruosa sorella Ceto, che a loro volta erano figli di Gaia, la terra, e di Ponto, il mare. Oltre a Medusa, la più celebre, c’erano Steno ed Euriale. Si dice che eccetto Medusa fossero immortali, mentre sul loro aspetto ci sono informazioni discordanti. Talora furono descritte come creature bellissime, ma la maggior parte delle volte vennero rappresentate tutte e tre come orribili mostri dotati di ali, occhi infuocati, zanne, lingua biforcuta, artigli di bronzo, scaglie sul corpo, serpenti velenosi al posto dei capelli e soprattutto di uno sguardo in grado, letteralmente, di pietrificare. Questa sembra la cosa più verosimile considerato di chi erano la progenie, eppure la leggenda narra che inizialmente Medusa avesse un aspetto normale, anzi fosse una donna bellissima dai capelli meravigliosi. Proprio per la sua bellezza Poseidone si innamorò di lei e la sedusse, o la violentò, nel tempio di Atena. Questo, e il fatto che Medusa rivaleggiasse con lei in bellezza, provocarono le ire della dea che per punirla la trasformò nel mostro che conosciamo, infierendo particolarmente sui suoi capelli, che erano il suo maggior vanto. In essi risiedeva fisicamente la sua bellezza e simbolicamente la sua forza, e così privandola dei capelli Atena la privò innanzitutto della sua sensualità; ma siccome ciò non le bastava, Atena le “donò” uno sguardo letale che la alienava dalla società condannandola alla solitudine eterna, negandole ogni futura possibilità di amore, di affetti. In tempi più moderni Atena si sarebbe forse avvalsa di elettroshock e lobotomia, gli strumenti con cui in tempi più “illuminati” si curava l’isteria femminile (definizione-calderone, in ambito femminile).
Arnold Böcklin, Medusa, 1878
In seguito fu sempre Atena ad “armare” la mano di Perseo perché completasse la sua vendetta, con una cattiveria e una freddezza – alla maniera dei miti greci - del tutto sproporzionate rispetto all’affronto subito. E come lo fece? Donandogli uno specchio. Ecco ancora il simbolo dello specchio che ricorre… Medusa non può essere guardata direttamente, ovvero non si può guardare alla sua vera essenza, ma solo tramite uno specchio, ovvero al suo riflesso. Ecco il nodo, quello che molti critici usano per interpretare il mito: che cos’è in realtà che non si può guardare? È come se si affermasse che, se lo si guarda veramente, nella sua interezza, nessun essere può essere ucciso. E perché proprio Medusa delle tre Gorgoni rappresentava la perversione intellettuale, tra tutte forse la più sovversiva? Racconta ancora la leggenda che, una volta che Medusa fu decapitata, Perseo donò la sua testa ad Atena che la usò per ornare il suo scudo; o, secondo un’altra versione, che la dea foderò l’egida della spada con la pelle di Medusa, alla maniera in cui i popoli primitivi conservavano parti del corpo del nemico ucciso in battaglia (quando non lo mangiavano) perché credevano che in questo modo si sarebbero appropriati delle doti appartenute al defunto. Che cos’è dunque che Atena invidiava a Medusa? Forse semplicemente le serviva Medusa per diventare completa. Per trovare un equilibrio.Non è un caso che la caratteristica saliente di Medusa siano i serpenti per capelli. Istintivamente il serpente fa paura, ribrezzo, perché ripensiamo al serpente biblico e lo associamo inconsciamente ai peggiori difetti dell’animo umano. Eppure i primi cristiani lo collocavano sulla croce e fu solo più tardi che al suo posto fu rappresentato Gesù Cristo: il serpente fu messo da parte e per identificare Cristo fu scelto un simbolo più inoffensivo, quello dell’agnello.
Migliaia di anni fa il serpente era un animale sacro e magico: non era affatto un simbolo di morte e di peccato, anzi rappresentava saggezza e conoscenza. Ma anche guarigione, salvezza, rinascita: questo antico significato è stato tramandato nel Caduceo di Mercurio, uno dei simboli della medicina insieme al bastone di Esculapio.
Il serpente apparteneva a civiltà come quella di Atlantide, quella egizia, indiana, centramericana e persino a quella cinese (infatti il drago altro non è che un serpente). Era un simbolo di rinascita e quindi per estensione simboleggiava l’energia, la forza vitale, ergo l’eros… insomma il sesso. Ecco perché è un simbolo femminile e fa paura. Il suo antico significato ci è stato tramandato nei nostri geni.
Tutto questo era ben noto agli antichi greci, che difatti narrarono che del sangue sgorgato dalla testa di Medusa trasformò dei rami in coralli, e che dalla sua testa mozzata uscirono il cavallo alato Pegaso e il gigante Crisaore.
Pieter Paul Rubens, The head of Medusa, 1618