Esco dalla visione di "Blackhat" di Michael Mann con la pelle d'oca e le palpitazioni a mille. Riuscire a tradurre ciò che sento, provare anche solamente a legittimarlo in un discorso sarebbe cosa davvero frustrante. Mi accontento di pensieri che scorrono a velocità insondabili, di immagini che custodisco avidamente nel mio cuore, convinto, oggi più che mai, che non esista regista al mondo come Michael Mann.
Tutto in "Blackhat" ti piomba addosso come grandine: mi trovo direttamente immerso nell'azione caleidoscopica che sommerge l'intero film. Confuso, sovreccitato, completamente fuori di me, perdo le coordinate, seguo le tracce di un'azione che non vuole mai fermarsi, ma, sinuosa e avvolgente, ti porta nel grembo di un erotismo sfumato e irrefrenabile.
Il corpo, la bocca, la pistola, le dita che pigiano sui tasti, lo sguardo ricambiato, desiderato, protratto, negato, infine rilanciato. Dall'ultimo cielo notturno fissato da un cadavere piangente, ai timidi accenni di un'intesa appena sbocciata, dagli attimi fuggenti dei teneri amanti all'ultimo sguardo, quello fermo nel tempo, custodito tra i rimpianti di una vita intera. E poi i baci, le carezze, le tenerezze di una notte, la lama che affonda nella pelle, il respiro in metropolitana, il sangue e la fatica, i palazzi che sembrano alberi maestri, le automobili, i piccoli gesti e via dicendo.
Attimi di totale sospensione dove il ralenti non enfatizza l'azione, ma la fa deflagrare in un tempo altro: qui tutto è coreografia di doppi, malinconia dell'occhio e atto d'amore imprescindibile nei confronti della luce (le notti di Michael Mann, ripetiamo da una vita, e sono notti che vorresti durassero giorni, ma che si dissolvono, si spengono nello schermo, e ti piacerebbe provare a catturarle, forse viverci dentro, ma loro svaniscono via come tutto nel film: così mi perdo nella dolcezza di un tramonto).
Rispondono a questi corpi degli eserciti di numeri, codici, file, hard disk, cellulari, portatili, grandi protagonisti di guerre virtuali.
Il vero duello in "Blackhat" è quello senza patria tra un regime liquido e uno fisico, tra l'invisibile e il visibile, tra il numero e la materia, tra l'extracorporeo e tutto ciò che ha volume: l'esito è veicolato da continue, imperterrite esplosioni di luce. Chris Hemsworth, del resto, è l'ennesimo corpo pesante del cinema di Mann, partecipe di velocità insondabili e di drammatiche, radicali assenze di peso.
E' come se le digressioni romantiche di "Miami Vice" fossero diventate ormai l'humus dell'intero film, che si apre quindi a voli lisergici e astratti, a sperimentazioni visive degne del più giovane, del più vigoroso, del più appassionato e melvilliano dei registi. Lo stesso regista capace di correre e di frenare bruscamente, in uno shock percettivo che alterna corpi crivellati da proiettili ad abissi multimediali: dalla rete al coltello, dal nemico invisibile al corpo da urtare. Mann è il regista che non guarda mai l'azione, ma è nell'azione stessa, come se fosse l'ultimo paladino di un melò sfrenato (com'è bello, com'è straziante, il suo amore per i personaggi e le storie che racconta. Chi oggi è così capace di amare al cinema?)
Rimangono allora i paradisi perduti a cui volgere lo sguardo con occhio languido, mentre s'inscena l'ennesimo Heat, dove la distanza tra i due antagonisti è legittimata dall'invisibilità della rete. Ogni cosa nel film è come attratta da quell'invisibilità, nella direzione di intere esistenze che rifiutano di essere solamente un numero.
"Blackhat" è, in conclusione, un film di fantasmi che gridano il loro dolore dall'undici settembre, ma anche una storia d'amore senza tempo, una confessione a cuore aperto sul legame insolubile che ci lega alle immagini (quelle che restano, quelle che se ne vanno, quelle che non esistono, quelle che ci sono sempre state). E' un cinema, questo, che vive di istanti che si susseguono in piena tempesta, e ciò che si trova in quegli istanti non è altro che l'uomo.
Fosse anche l'ultimo film di questo gigante, non poteva esserci chiusura più maestosa. In attesa di una seconda, terza, quarta visione, "Blackhat" è un capolavoro infinito introiettato in geometrie di luci, volti e proiettili. La sua eco, ne sono sicuro, non potrà che segnare e influenzare il futuro di tanto cinema.