al Concorso nazionale PREMIO AVA
La sveglia mi riporta alla realtà: velocemente mi vesto, cercando qua e là alcuni dei miei strambi indumenti sparsi per tutta la stanza. Il mio nome è Clio, 23 anni, aspirante giornalista in evoluzione. Mi ero ripromessa di lasciare in Italia queste mie “sane” abitudini, ma New York stessa è una città caotica e confusionaria, piena di vita e ingegno e il mio mini appartamento non è che una New York in miniatura. La disposizione caotica di elementi e mobili ne richiama angoli caratteristici come l’Empire State Building o un sentiero di Central Park. Mi precipito nel mondo urbano e, per alcuni istanti, mi perdo in quella massa di gente, fatta di microcosmi umani, ciascuno dei quali avvolto dal mondo dei suoi pensieri confusionari che, però, si muove in modo sincrono, quasi danzante, come ad eseguire note musicali di uno spartito che è però a loro sconosciuto. A volte, in questo insieme incasinato e frenetico, ma allo stesso tempo dolce, si può cogliere la singolarità di un pensiero e allora mi compare spontaneamente un sorriso. Amo New York, la mia nuova vita, la mia indipendenza, la scoperta e l’avventura, eppure ogni tanto le mie radici italiane si agitano ed è come se nella mente, lentamente, dilagasse un mal di pancia, mi mancano i sapori e i colori, tutto quel romanticismo tipicamente italiano.Come ogni mattina mi preparo al viaggio che mi porterà alla redazione del giornale dove lavoro. No! Purtroppo non ancora come inviata speciale, ma confido che il mio sogno di diventare la number one prima o poi si realizzerà; l’ottimismo non mi manca mai, comunque, per ora, mi sento straordinariamente felice di sperimentare l’oltre che la vita mi offre, anche se a volte questo oltre mi spaventa a morte. Guardo il paesaggio urbano che scorre velocemente al di là del finestrino del tram e ogni giorno è come se i miei occhi scattassero miriadi di foto, particolari della folla, dell’ambiente, elementi, accenni fugaci.Improvvisamente l’attenzione si fissa su una piccola foto in bianco e nero abbandonata su un sedile, una foto che ritrae probabilmente un paesaggio, ma sembra racchiudere in sè anche tutto il senso di una vita, sembra un reperto, uno strano reperto. La mia curiosità mi spinge a farmi largo tra i passeggeri e a raccoglierla. Stranamente raffigura un paesaggio a me noto: un borgo italiano conosciuto per una festa a ricorrenza annuale, la Festa dei Ceri di Gubbio, a cui ero solita andare con la nonna. Quello che conta veramente è, però, l’indirizzo newyorkese scritto in lingua italiana sul retro della foto.Il mal di pancia mentale incomincia ad agitarsi e nella mia mente si aprono immagini. La curiosità iniziale di ciò che sembrava l’indizio di una possibile spy story si perde nel meandro romantico di ricordi di una vita che racchiude in sè solo la semplicità dello spirito italiano. Decido di scacciarla e ripongo la foto ingiallita nel fondo della mia borsa.La giornata trascorre frenetica e avvolgente, racchiude in sè tutto il senso di una conquista, la mia emancipazione totale. In preda a un vortice di riflessioni di ogni genere, mi pento di aver invitato i miei nuovi amici a cena; distrattamente mi appresto a preparare qualcosa di semplice, mi accorgo che le mie mani stanno, in modo spontaneo e autonomo, cucinando un piatto di pasta al pomodoro. Mi ricordo della foto e completamente estranea dal trascorrere del tempo, traccio scenari, ipotizzo, per poi arrivare alla semplice conclusione che mi sarei recata all’indirizzo descritto.L’indomani, una strana eccitazione mi pervade, non riesco a riordinare e ad organizzare i pensieri che, in preda a uno strano moto ondoso, si muovono nella mia mente e, come conchiglie, in modo disordinato, affiorano sulla spiaggia di un’ ansia interiore che si fa sempre più inquieta. Sono dinnanzi alla casa indicata nell’indirizzo: più che un moderno grattacielo, espressione di un’architettura futuristica, trovo un vecchio palazzo trasandato. La finestra è socchiusa e mi trovo a spiarne l’interno; il mio tentativo di individuare alcuni particolari si dissolve velocemente perdendosi nei profumi e nei sapori delle pietanze che si sono impadroniti della strada nei quali credo di riconoscere quelli tipici italiani che parlano di cucina casalinga. Entusiasta, suono il campanello e rimango di stucco, quasi impietrita, quando alla porta mi trovo di fronte un giovane ragazzo arabo, capelli folti e ribelli, corvini, magrezza spaventosa. Lentamente distinguo i profumi e i sapori che racchiudono una punta pungente di cipolla fritta e di spezie, unito al dolce del miele e della frutta secca. Il ragazzo, sicuramente, stava cucinando, ma non italiano. Tutto precipita, frana ed ora riesco a dare un volto a quella forma di inquietudine e d’ansia che non è altro che il desiderio di ritrovare qui a New York, l’ombelico del mondo, un piccolo anfratto d’Italia, un piccolo anfratto di me, del mio passato, qualcosa in cui riconoscermi, il mio ombelico. Sto per scusarmi, spiegando che probabilmente ho commesso un errore di indirizzo o persona, quando lui, indicando la foto che racchiudo nelle mani e abbandonandosi a un largo sorriso, mi parla. Stupore, parla un corretto e fluente italiano.Mi invita a entrare e, contro ogni ragione logica, accetto. Mi rendo conto che in realtà non vi è nulla nel quale possa riconoscermi in quell’appartamento. Il ragazzo, che si chiama Irfan, è stranamente caloroso e disponibile.Lentamente l’appartamento diventa familiare, il suo narrare mi porta in paesi, paesaggi e tramonti indefiniti. E’ come se ascoltassi, in una chiave più moderna e meno poetica, quasi rock, i racconti del libro delle Mille e una notte. Irfan è musulmano, eppure sembra appartenere molto più di me a quell’ombelico, nonostante vi abbia vissuto per pochissimo tempo, il necessario, come lui asserisce, per assorbirne, oltre alla lingua, l’essenziale, la vitalità, la quadratura del cerchio.Non riesco a non frequentare Irfan, è come rinunciare ad una miscela cosmica che si riconosce scoppiettante ed euforica, in continua evoluzione, ma che sembra racchiudere nella propria galassia, stelle conosciute e complementari. Quasi quasi scambio questa sensazione con una forma di innamoramento, invece non è che quell’ombelico, la ricerca di quell’ombelico, l’ombelico stesso che non è altro che il personale divenire di ognuno di noi, il nostro crescere, mutare, aprirsi, in una risultante che è passato, presente e futuro, in dimensioni che non sono di paesaggio, tradizioni, sapori, emancipazione, ma che vivono e risiedono unicamente in noi stessi. Felice, salgo su una vecchia e datata moto, stretta ad Irfan, pronta a correre verso nuove ed entusiasmanti scoperte. (S.G.)