Negli anni Novanta, uno dei sociologi italiani più presenti sulla scena internazionale, Alberto Melucci (1943-2001), si è interrogato a fondo sulla nozione di “riflessività”.
Melucci osservava come le società moderne si caratterizzano per la loro crescente riflessività: le istituzioni e le forme di condotta richiedono sempre più il consenso degli attori.
Gli attori si sentono sempre più investiti da un senso di responsabilità piena, in quanto sono continuamente chiamati a decidere la riproduzione e le trasformazioni delle istituzioni nonché il senso stesso della vita.
Le società moderne sono caratterizzate, rispetto a quelle passate, dal fatto di non avere più un decisore imperscrutabile che dall’alto della sua autorità fa discendere la sua volontà sul popolo ignaro, un decisore, dunque, in grado di condizionare e decidere ogni aspetto particolare della vita senza che il popolo avesse un minimo potere di controllo su quelle decisioni.
Tale decisore alla coscienza di chi ne subiva le decisioni appariva come un essere dotato di virtù divine (Dio o Monarca). L’ordine che regnava all’interno delle società era un ordine imposto da un’autorità divina (spirituale o terrena) e come tale doveva essere accettato senza discussione.
Naturalmente, all’interno di una particolare società tale potere poteva presentarsi in termini assoluti o limitati.
Da quando nelle società occidentali sono cominciate ad emergere ed affermarsi le democrazie, il potere di decisione ha iniziato ad essere sottoposto ad altre forme di legittimazione: la decisione imposta trova una sua intrinseca validità quando viene legittimata dal consenso elettorale.
Tale potere decisionale non riguarda la sfera strettamente politica. Anche nei costumi, nelle condotte private, nelle scelte etiche si fa strada e si afferma l’idea che ogni individuo può compiere liberamente le sue scelte, purché non danneggi altri, richiamandosi ciascuno alle proprie convinzioni. Ciò che accade nella sfera individuale comincia ad affermarsi anche in quella collettiva: un decisore, non può più prendere una decisione senza consultare coloro che sono direttamente investiti da quella decisione.
Per ogni tipo di decisione che investe un interesse collettivo occorre un assenso generale. Insomma, si tratta della differenza che divide l’idea di cittadino da quella di suddito: nel primo caso si agisce e si interviene nella vita sociale tenendo conto che vi può essere un parere contrario o favorevole, nel secondo caso si agisce e si interviene come se non di dovesse rendere conto a nessuno (se non alla stessa autorità da cui ci si sente investiti).
Tutte le democrazie avanzate del mondo occidentale si muovono sulla base di questo principio di cittadinanza riconosciuto. Ciò non toglie, ed anzi conferma ancora di più la validità del principio, che ogni decisore, sulla base delle sue risorse, possa influenzare la scelta del cittadino. La capacità di poter influenzare questa scelta rientra perfettamente tra le prerogative della stessa democrazia (purché sussista un equilibrio di risorse).
Possiamo dunque arrivare alla conclusione che una democrazia compiuta sia del tutto incompatibile con ogni forma residuale di sudditanza: ovvero, laddove persistono forme o concezioni di sudditanza vuol dire che ancora non siamo di fronte a una democrazia compiuta. Nei paesi in cui i cittadini continuano ad essere trattati nella sostanza come sudditi e non come cittadini, ossia come individui non ancora in grado di esprimere un parere negativo o positivo su una qualsiasi scelta, allora vuol dire che persiste nei decisori una concezione della democrazia intesa come forma di sudditanza. Per fare un esempio in tal senso possiamo prendere in esame la funzione della censura: in un paese in cui si avverte da parte dei decisori il bisogno di imporre delle censure nel campo della cultura, della comunicazione massmediale, vuol dire che quegli stessi decisori considerano i propri cittadini “incapaci” di compiere delle scelte, e quindi bisognosi di essere guidati ed indirizzati.
Laddove persiste tale mentalità vuol dire che persiste ancora una mentalità “patriarcale” della democrazia, una mentalità in cui il decisore di turno si sente investito ad agire in questo modo perché avverte il dovere di “proteggere” i suoi cittadini/sudditi dai pericoli di cui sono completamente ignari, come appunto fa un buon padre di famiglia nei confronti dei suoi figli minorenni. Il problema però non si pone soltanto da parte dei decisori che agiscono in modo patriarcale, ma si pone anche sul versante degli stessi cittadini che si fanno trattare come se fossero dei “minorati”. A questo punto ci si dovrebbe chiedere come mai in una democrazia possa continuare a persistere una mentalità da suddito. Mi pare evidente che per rispondere a questa domanda occorre ricostruire il processo storico da cui quella democrazia proviene.
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