Memoria, consapevolezza e coscienza civile

Creato il 18 luglio 2010 da Letteratitudine

 Altre volte, su questo blog, abbiamo sfiorato il tema della “memoria”. Vorrei riaprire la discussione approfittando di una ricorrenza di cui, per il momento, preferisco non dire nulla per non rovinare la lettura del contributo che seguirà questa mia breve introduzione.

“Memoria”, dunque. Intesa più che altro come “memoria collettiva” finalizzata alla acquisizione di maggiore consapevolezza e coscienza civile.

Ecco alcune domande per stimolare la discussione.
 

- Che rapporto c’è tra trascorrere del tempo e consapevolezza?
Il tempo acuisce la capacità di imparare dal passato o diluisce i suoi insegnamenti?

- Può l’arte essere una risposta? Può la letteratura, che è anche memoria, elaborare il passato per creare una consapevolezza “eternata”, duratura?

- Siete d’accordo con le seguenti citazioni?
a) “Noi siamo il nostro passato” [di Henri Bergson]
b) “Siamo voce, siamo vene, arterie, vasi linfatici, caverne polmonari, velenosa bile, laborioso fegato, paziente cuore (…). Siamo tutto questo, e con tutto attraversiamo il tempo, che ci maltratta, ci prende a schiaffi e qualche volta ci concede una carezza o la forza di sorridere, ma ben più spesso la consapevolezza dell’estrema vicinanza a una soglia che ci divide da ciò che non riavremo più e da ciò che non saremo mai”. [di Antonio Tabucchi]

Vi sentite più vicini al pensiero di Bergson o a quello di Tabucchi?

- Siete a conoscenza di altre citazioni sulla “memoria” da proporre come contributo a questa discussione?

Il contributo che segue è stato scritto, dietro mia richiesta, dalla scrittrice e magistrato Simona Lo Iacono.
Ne approfitto sin da subito per ringraziarla.

Massimo Maugeri
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FUOCHI D’ARTIFICIO
di Simona Lo Iacono

I pochi gesti che compio stamattina non hanno niente a che fare col buio. Sono gesti intagliati in un sole che assorbe tutto.
Apro il balcone mentre alle mie spalle lei dorme ancora. Conosco la piega che prende il lenzuolo tra i due seni, l’arsura che le si incolla sulle gambe e le fa spostare il ginocchio in su. Non ha mai saputo che la osservo per ore mentre dorme, e neanche i miei figli lo sanno, perché il sonno è un segreto che può violare solo chi ama, ma di nascosto, senza farsene accorgere. Sarebbe come rubare l’anima mentre si acquatta e impigrisce, e io non ho mai saputo sottrarre niente a nessuno. Non ora, poi, che la notte è un nemico che mi inchioda solo poche ore, e insiste a trasformarsi in una veglia perpetua e piangente, che consumo bevendo caffè, lucidando i ricordi e assestando gli ultimi colpi a queste carte.
Nei primi tempi le impilavo ovunque, in spiaggia, tra le sdraio che lei ha sempre voluto di fronte, a specchio, per guardarmi lavorare. E in bagno, dove lasciavo che la sigaretta mi pencolasse consumandosi da sola, sbriciolando cenere e saliva. Poi, col tempo, ho preso a selezionare. Pochi documenti, scelti col fiuto di un presentimento.
Ma questa mattina non cederò ai presentimenti. Scenderò in mare con la barca. Slitterò piano sulle onde.
Il giornale lo comprerò prima. All’edicola sotto casa, da solo.
Non voglio che i ragazzi mi accompagnino. Fa caldo, ed è una bella domenica. Che stiano a letto ancora un’ora.
Citofoneranno alle nove, come al solito. E come al solito vedrò avvitarsi sulla mia ombra la loro, tesa come un legaccio.
Li osservo cingermi a cerchio, fare scudo sul niente.
La calma ci fa paura più di ogni altra cosa, più del traffico che esplode a mezzogiorno, o più dell’autostrada che cuoce imbrumandosi di un odore greve, di spazzatura.
A volte ne ridiamo. Fingiamo di essere sulla volante solo per gioco, o per una vacanza, dice qualcuno. E se la sirena urge sul cielo, ci cantiamo sopra, azzardiamo una barzelletta.
Siamo bravi a distrarre la morte.
Giovanni ci sapeva fare più di ogni altro. Non faceva scongiuri ma sosteneva con una punta di orgoglio che nessuno, ormai, muore così. Coi fuochi d’artificio che bombardano l’aria. E intanto accarezzava la borsa porta documenti, faceva schioccare la serratura con due dita. Salta in un secondo, diceva. Ma non rideva più.
La barca è pronta. Solo un giro nel porto ho detto, ma seguendo i gabbiani che si inarcano verso gli scogli. Voglio vederli planare.
Intanto a casa le melanzane friggono sull’olio. Lei sa rosolarle perfettamente, lasciando che la crosta che le circonda crocchi tra le labbra. Mi ama silenziosamente questa donna china sulla padella, che non chiede niente se non vedermi tornare.
La cingo da dietro e le bacio la nuca, i resti delle melanzane ancora tra i denti.
Vado a riposare, le dico, e nel sorriso che adesso copre coi capelli, leggo tutti questi anni. Ti sveglio alle quattro, risponde. E io sussulto. E’ come se contasse alla rovescia.
L’ultimo abbraccio glielo do sull’uscio di casa. I ragazzi già mi aspettano con la portiera aperta, le pistole d’ordinanza sotto le camicie estive.
Bacio di fretta anche i miei figli perché ultimamente so che il tempo è spigoloso, tende trappole e salta segnali.
E poi. Mia madre mi aspetta. Avrà messo la vestina nera, come la chiama lei. Le calze, anche se è luglio.
L’agente scelto mi dice: aspetti dottore, lei rimanga qui che citofono io.
Mia madre è pronta già da mezz’ora, e posso quasi vederla rispondere sì scendo, tremare un poco sulle gambe, sovrapporsi al viso di mia moglie, e dei miei figli, i loro occhi che inondano adesso questa macchina, le melanzane che ballano sull’olio, la barca che pedina gabbiani.
Allora è vero, era un conto alla rovescia, anche se non è come immaginavo, non è un boato, piuttosto un respiro lungo a scuoterci, e lapilli che infestano l’aria, e poi i balconi delle case, e l’agente scelto che viene spinto in avanti, mentre di tutto quello che credevo di ricordare non resta che questa stanchezza forse un po’ perplessa e triste, nomi, una data, un luogo, fuochi d’artificio, come diceva Giovanni.

Via D’Amelio, 19 Luglio 1992. Paolo Borsellino.