La Storia ha i suoi lati oscuri. Segreti che i vincitori di turno custodiscono per opportunismo politico. Soprattutto in un periodo caotico e sconvolgente come la guerra. E ancor più quando la vicenda bellica s’approssima alla fine e i probabili sconfitti non s’arrendono all’evidenza. Allora è necessario che si levi una voce lucida e equilibrata che getti luce su quei lati oscuri, che documenti le vicende e riporti ordine tra i ricordi. Un latore di memoria.
Solo un testimone diretto può assolvere a questo compito. Esattamente ciò che è Elena Rževskaja.
Russia, ottobre 1941. Sono i primi mesi dell’offensiva tedesca contro l’URSS. Le truppe germaniche avanzano fulminee secondo la logica del blitzkrieg, certe di conquistare Mosca prima del grande freddo. I russi per il momento mordono la polvere e conoscono la sofferenza della sconfitta, mentre al fronte c’è un gran bisogno di interpreti militari.
Elena vive a Mosca, ha 22 anni e lavora in una fabbrica di orologi che lascerà per iscriversi proprio a un corso per interprete di guerra. Lì apprenderà i rudimenti del tedesco perché non c’è tempo e urge la presenza di interpreti per decifrare documenti del nemico e interrogare i prigionieri tedeschi. Elena viene assegnata all’Armata Rossa e inizia così un viaggio nell’orrore della guerra. Con l’Armata Rossa attraversa città e villaggi sconvolti dal conflitto, si ferma nelle case di contadini che vivono in miseria ma che non lesinano di condividere coi soldati quel poco che hanno. Luoghi nei quali lei ritornerà dopo la guerra e di cui scriverà nei suoi romanzi. Intanto il grande gelo è sopraggiunto e ci racconta della vita al fronte, tra strade fangose e venti gelidi, con una temperatura che scende a meno venti sottozero. E la neve che turbina su tutti, vivi e morti, vincitori e vinti.
L’interprete di guerra è una figura di confine che dialoga con entrambe le parti. Elena non si limita a interrogare i tedeschi prigionieri. Raccoglie anche documenti come le lettere che i soldati tedeschi al fronte hanno scritto ai parenti ma che non arriveranno mai perché il sacco in cui sono state spedite è caduto nelle mani nemiche. Grazie a lei, queste lettere diventano una testimonianza storica preziosa e commovente: sono i soldati tedeschi che ci raccontano della loro condizione disperata perché non sono equipaggiati contro il grande freddo russo e disperano non solo di conquistare Mosca, ma di sopravvivere fino al giorno dopo.
A far da contraltare allo sconforto crescente delle truppe, l’autrice riporta il testo dei volantini diffusi dalla propaganda nazista. Veri e propri geni della comunicazione ante litteram, Goebbels e i suoi camerati non cessavano di falsificare la realtà pur di spronare i soldati verso la gloriosa vittoria. Ma oltre che col generale inverno, gli ufficiali tedeschi non hanno fatto i conti con la strenua resistenza del popolo sovietico. Al seguito dell’Armata Rossa, Elena prende parte alla sanguinosa battaglia di Ržev, cittadina del fronte orientale. Roccaforte strategica della IX armata della Wehrmacht, la sua conquista avrebbe permesso ai russi di tagliare una delle vie di approvvigionamento tedesche. La battaglia infuriò per quasi due mesi, nel gennaio e febbraio del 1942. Solo l’abilità tattica del Generale Model impedì ai nazisti di cedere la cittadina ai russi. Il prezzo che l’Armata Rossa pagò fu spropositato: cinquemila prigionieri, venticinquemila caduti. È nel ricordo di quest’epica battaglia che Elena Moiseeva Kagan ha assunto lo pseudonimo di Elena Rževskaja.
Maggio 1945. La capitolazione di Berlino
Al seguito della Terza Armata l’autrice attraversa l’Europa e passa dal fronte russo all’assedio di Berlino. Dopo averci raccontato con emozione i giorni della strenua difesa russa e della sofferenza dei soldati tedeschi nella morsa del gelo, ora il tono narrativo cambia e la voce della Rževskaja è sempre più quella della storica che si affida alla testimonianza diretta e all’oggettività dei documenti. Non senza rinunciare a qualche pagina d’autore, come quelle in cui descrive l’ingresso della Terza Armata nella capitale tedesca: la miseria dei berlinesi costretti a vivere negli scantinati con la poca acqua e i viveri che vanno esaurendosi in una città ormai ridotta a un cumulo di macerie fumanti, in preda a una convulsa, feroce battaglia.
Dopo tre giorni Berlino viene circondata dai russi. Il generale Berzarin, nominato comandante militare della città, ordina lo scioglimento del partito nazionalsocialista. Da qui in poi la Rževskaja ci guida nella ricostruzione degli ultimi giorni di Hitler e dei suoi stretti collaboratori, rifugiatisi nel super bunker sotto la Cancelleria del Reich. Una ricostruzione che ricorda da vicino il film La caduta – Gli ultimi giorni di Hitler del regista Oliver Hirschbiegel.
Il 1° maggio a tarda sera Radio Amburgo dà l’annuncio che il Führer è caduto nel pomeriggio, dopo aver combattuto fino all’ultimo contro il bolscevismo. Sappiamo che non andò esattamente così e che gli ultimi giorni del Führer e dei suoi scagnozzi furono tutt’altro che eroici. Ad ogni modo ora la missione dei russi era trovare Hitler vivo o morto.
Il cover up di Stalin
Il 2 maggio le truppe del maresciallo Žukov conquistano la capitale tedesca. La battaglia di Berlino è finita mentre un ristretto gruppo di russi entra nel Führer-bunker. Elena Rževskaja è l’unica donna a farne parte. All’interno del bunker trovano decine di documenti, tra cui i diari di Goebbels, i cadaveri di quest’ultimo, della moglie e dei figli. La Rževskaja dà ampio spazio alle pagine dei diari di Goebbels, ministro della propaganda. Tuttavia non poté consultarli subito perché vennero inviati allo Stato Maggiore del Fronte e da qui finirono dimenticati in un archivio di stato. Ma che fine ha fatto Hitler?
Elena Rževskaja e i suoi compagni trovano i resti di due cadaveri carbonizzati nel giardino esterno del bunker. Di uno dei due non rimane che la mascella e i denti. Con ritmo incalzante l’autrice ci racconta come in pochi giorni e con grande fortuna riuscirono a rintracciare il medico dentista e l’odontotecnico che permisero di identificare al di là di ogni dubbio che quel misero resto era tutto ciò che rimaneva del Führer. Peccato che Stalin ordinò che tutto il materiale rinvenuto nel bunker fosse secretato e che chi sapeva doveva tacere. La stessa Rževskaja non poté consultare i diari di Goebbels se non molti anni dopo, nel 1965.
Per quale ragione Stalin decise di non rivelare la verità sulla scomparsa di Hitler? Forse per semplice calcolo opportunistico. Già si profilava la Guerra Fredda e Stalin, abile stratega, pensava di avvantaggiarsi nel tenere vivo il dubbio se Hitler fosse riuscito a fuggire oppure morto.
Del resto la mania di onnipotenza lo porterà poi a oscurare l’eroe della conquista di Berlino, quel maresciallo Žukov la cui fama in patria rischiava di superare la sua. Ma si sa, in tempo di pace gli eroi di guerra hanno gloria breve.
Elena Rževskaja, Memorie di una interprete di guerra, Voland. Traduzionedi Daniela Di Sora