Mercato del lavoro e Restare Umani - Appunti sparsi

Creato il 05 settembre 2014 da Stupefatti

- Devo essere motivato, devo farmelo piacere, devo averci la passione, devo essere spendibile, bisogna sapersi vendersi.- Hai deciso di farti strada nella vita?- No, ripeto i Mantra dell’Orrore Contemporaneo.- …- Perché mi guardi così?- Perché penso che, di questo passo, non farai mai strada nella vita.

II- Mettiamo il mercato del lavoro…mettiamo il luogo psicosociale dell’azienda….- Si- Lì il problema non è che i capi, o l’azienda, o il sistema, ti trattano come una merce.- E qual è il problema?- Il problema è quando tu ti percepisci come una merce, quando cominci a pensarti come una merce da piazzare nel mercato del lavoro.- In pratica, dici, il problema è quando fai tua la mentalità dei capi, del sistema dell’azienda…- Esattamente.- E perché sarebbe un problema?- Perché è lì che da umani ci trasformiamo in inumani. Quando ci pensiamo come merce e non come umani.- Scusa, qual è la differenza tra una merce e un umano?- …

III- Io la penso così, invece. Se noi siamo sul mercato – e il mercato del lavoro è un mercato come tutti gli altri – allora siamo merce.- Eh.- Merce almeno in quel settore, certo. Ma il punto è che la nostra vita si manifesta anche in tanti altri settori. Per restare umani, bisogna percepirsi come umani soprattutto negli altri settori.- E nel settore lavorativo?- Meglio perderci le speranze. Nel 90% dei casi, ti ammazza l’umanità. Meglio concentrarsi su altro.- Ma spesso la nostra vita si manifesta quasi esclusivamente nel settore lavorativo…- Già, soprattutto quando il lavoro non c’è. Oppure quando il lavoro è una merda.- Ben detto.- Beh, bisogna fare in modo che non sia così. Il lavoro deve essere una parte del tutto. Una parte preferibilmente marginale, ininfluente.- Una parola.- Mica ti ho detto che è facile.IV- Però prima non era così.- Prima quando?- Prima. Quando non c’era il rischio di assorbire così tanto, dentro la testa, le logiche di mercato. Quando l’azienda aveva bisogno di controllare i lavoratori perché lavorassero, mentre ora invece – perché non c’è più il posto fisso e per tanti altri motivi – ora sono i lavoratori che devonodimostrare all’azienda che valgono. I lavoratori devono pregare l’azienda di tenerli con sé, di non licenziarli. E quindi: “essere motivati”, “farselo piacere”, “averci la passione”, “essere spendibili”, “sapersi vendere”.- Questo è vero. È un bel capovolgimento, no?- Si, con la flessibilità del lavoro, tutto è a carico del lavoratore, e quindi egli deve auto-strutturarsi, auto-costruirsi, in totale autonomia. L’azienda se ne fotte, e si prende il meglio, le energie migliori, senza aver bisogno di controllare, organizzare, formare.- Si, è un bel risparmio, per l’azienda.- Ma a livello psicologico, che succede?- Che succede?- Succede che l’azienda, da dominatore esterno ed esplicito, diventa dominatore interno al lavoratore. Diventa implicito, inconscio. Prima era un’entità potentissima, certo, ma almeno era visibile, riconoscibile, perchè al-di-fuori-di-noi, e dunque era possibile critacare, ribellarsi, lottare, in qualche modo. Adesso invece è diventata qualcosa di sfuggente e ipodermica, che agisce sottopelle, senza farsi notare. E che condiziona i nostri stessi modi di pensare, nel profondo dell’intimo.- Forte.- Adesso le sue logiche devono diventare le stesse logiche dei modi di pensare del lavoratore, altrimenti questi non avrà chance di poter entrare nell’azienda.- Ti sembra terribile?- Si.- Eppure sembra essere questa La Libertà.V- Il mondo esterno è inumano. Denaro, capitalismo economia, globalizzazione. L’abbiamo creato noi, è un nostro manufatto, ed è inumano.- Tu pensi che questo mondo esterno possa cambiarci?- Mai come ora. Rischia di plasmarci definitivamente, di farci a sua immagine e somiglianza. Diventeremo uguali ad un nostro manufatti, pensa te, saremo come una zappa, un aratro. Saremo un treno a vapore.- E perché?- Perché il mondo esterno, questo manufatto, è diventato gigantesco, mai stato così gigantesco.- E non si può fare più niente per cambiarlo? Dopotutto l’abbiamo creato noi.- Cambiare il mondo è fuori moda. E poi, l’abbiamo creato noi, si, ma in generazioni e generazioni. Gli uomini sono morti, mentre il suo manufatto si è auto perpetrato ed è diventato quello che è diventato. Ogni generazione ha ereditato un manufatto che ogni volta arricchiva, arricchiva, arricchiva. Finchè questo è diventato ricchissimo, e potentissimo. Chi comanda ora? Gli uomini di potere hanno un qualche vero potere, o semplicemente fanno – senza saperlo – gli interessi di un manufatto stupido e inumano?VI- In fondo, cosa possiamo farci.VII- E cosa c’è da fare?- Restare umani?VIII- E come si resta umani, visto che viviamo in un mondo esterno inumano, e questo mondo esterno minaccia la nostra umanità, e intanto non abbiamo la più pallida idea di come modificare questo mondo esterno? Lasciamo perdere di impegnarci nel mondo esterno, sapendo che il mondo esterno minaccia la nostra umanità, e ci occupiamo soltanto esclusivamente della nostra umanità? Curiamo noi stessi e nessun altro, mai e poi mai, perchè non vale la pena occuparsi di altro che da sè? Ma non è solipsismo, questo? Non è pure inumano?IX- Ma poi, che significa, esattamente, restare umani?X- Mi sembri rassegnato.- Rassegnato, già. Passare in rassegna tutto quanto e rassegnarsi.- Ma è la soluzione?





NOTE
1) LA FINE DELLA STORIA. Un brano da "Ascesa e declino degli intellettuali in Europa" di Wolf Lepenies, 1992.
La post-storia, cioè la tesi della fine della storia, è una delle grandi idee guida degli intellettuali europei di destra del nostro secolo.Prendendo spunto dall’economia, la post-storia, l’ultimo atto della modernità, la storia futura dei nostri giorni, può essere definita come un’epoca senza avventure: il mondo non è più il campo dell’imprevedibilità, ma esistono solamente rischi calcolati. Lo sviluppo della società umana può ormai cambiare in singoli aspetti, ma non più nei suoi tratti fondamentali. Tutte le possibilità esistenti della società umana si trovano perfezionate in uno stato di “cristallizzazione culturale” (Pareto). L’invito all’homo sapiens della post-cultura può essere dunque solo quello di contare su ciò che ha, per usare le parole di Gottfried Benn.Caratteristica distintiva dell’agire umano diventa ora il bricolage, un mettere assieme vecchi pezzi che si rinnova di continuo, un giocare stranianete con il già noto, un risistemare, un riaggregare, un riordinare (…)Quando si dice che l’umanità è entrata irrimediabilmente nella fase della post-storia, non si vuole intendere che la storia si sia fermata (…).
caratteristica distintiva della post-storia è piuttosto l’estinzione delle alternative storiche e il crescente allontanamento della civiltà tecnico-scientifica dalla natura(…)
L’estinzione delle alternative storiche trova fondamento, dal punto di vista della post-storia, nella progressiva attenuazione delle differenze fra le società industriali a struttura capitalista e quelle a struttura socialista. Il processo evolutivo spinge in direzione di una resa delle grandi ideologie contemporanee di fronte alle necessità oggettive della società post-industriale. I momenti centrali di questo dibattito sono stati segnati da due libri del sociologo americano Daniel Bell: The end of ideology (1960) e The Coming of Post-Industrial Society (1973). (…)La fine della storia non significa stasi, ma mobilità sul posto; essa invita l’uomo a fare il bricoleur e a contare su ciò che ha, a rimescolare il già noto e riorganizzare il disponibile. (…)La tesi che si colloca nella post-storia tende indiscutibilmente a privilegiare il presente. L’epoca dell’imperfetto, della sua sussurante evocazione, è finita non solo nel romanzo. Noi viviamo in una società del presente. Alcuni prevedono con fondatezza che prima della fine del secolo l’umanità sarà cresciuta in misura tale che il numero dei viventi supererà quello di tutti i morti della storia. Nel momento in cui la sopravvivenza della specie è messa per la prima volta in discussione, l’homo sapiens si piega a una de-temporalizzazione delle sue prospettive, privandosi sia dello spazio di esperienza rappresentato dal passato sia dell’orizzonte di aspettative rappresentato dal futuro.
2) DISTOPIE. Le distopie alla Orwell sono frutto del loro tempo, angosce ormai datate. Il totalitarismo di quel tipo consiste in: forte controllo statale, dall’alto, e la vita di ognuno pesantemente regolamentata, sanzionata, irregimentata. C’è un occhio dall’alto che ti guarda, una riproposizione tecnocratico del Dio biblico. Tutto è scandito, misurato, amministrato. Il Grande Fratello di Orwell, appunto, o il Panopticon immaginato da Foucalt: una casa di vetro in cui non c’è privacy e tutti i lavoratori sono osservati dall’alto e si osservano a vicenda, pronti a tradirsi e pugnalarsi. Questo tipo di distopie non sono la degenerazione ultima pensabile dell’umanità. Non sono il male assoluto. Ci sono altri modi di disumanizzazione, altre distopie immaginabili, altri futuri di cui aver paura.Dicevano Marcuse e Fromm, negli anni cinquanta, che la civiltà occidentale consumistica ha eliminato il controllo psicologico statale dall’alto per sostituirlo con il controllo interno, l’auto-circoscrizione da parte di ogni cittadino-consumatore, il distorcimento del sistema degli istinti, la sommersione delle imposizioni sovra-personali in fondo all’inconscio personale, cosicchè i cittadini-sudditi fanno gli interessi del “regime consumistico” – andando contro gli interessi della propria “individualità e collettività umana” – pensando di fare “ciò che vogliono”. Compiendo “libere scelte razionali”. Interessante, a proposito, la tesi di Neil Postman, che mette a confronto le due distopie di Orwell e Huxley. 
(recensione di Postman di GianPaolo Serino su Carmillaonline
“Ci sono due modi”, scrive Postman, “per spegnere lo spirito di una civiltà: nel primo – quello orwelliano- la cultura diventa una prigione. Nel secondo – quello huxleiano- diventa una farsa.“Nella profezia di Huxley”, spiega Postman, “non c’è un Grande Fratello che, per sua scelta, guarda verso di noi. Siamo noi, per nostra scelta, a guardare verso di lui. Non c’è bisogno di carcerieri, cancelli, telecamere. Quando una popolazione è distratta da cose superficiali, quando la vita culturale è diventata un eterno circo di divertimenti, quando ogni serio discorso pubblico si trasforma in un balbettio infantile, quando un intero popolo si trasforma in spettatore e ogni pubblico affare in vaudeville, allora la nazione è in pericolo: la morte della cultura è chiaramente una possibilità”.La differenza sostanziale – ed è questo il punto focale del libro- è che un mondo alla Orwell è molto più facile da riconoscere e quindi da combattere rispetto alla farsa del “Mondo nuovo”: “Siamo tutti pronti ad abbattere una prigione, quando i cancelli stanno per rinchiudersi su di noi. Ma che succede se non si odono grida d’angoscia? Chi è disposto a prendere le armi contro un mare di divertimenti?”. 
(Tommaso Pincio su Huxley) 

La verità è che Huxley fu un profeta, vide cose che soltanto adesso cominciamo a intravedere in tutta la loro drammatica attualità. Orwell, in fondo, parlava del suo presente: scrisse del Grande Fratello e dei due minuti d’odio nel 1948, dopo stermini, persecuzioni e un conflitto di apocalittica portata, in un tempo in cui Hitler era morto da poco e Stalin stava dando il «meglio» di sé. Huxley immaginò invece il suo stato totalitario mondiale sedici anni prima, quando il nazismo non era ancora salito al potere. Ma non solo. In Un mondo nuovo è descritta una forma dittatoriale molto più sottile, molto più aderente a quella che sarebbe stata l’evoluzione del potereÈ una dittatura morbida, fondata sull’economia e il benessere ed è, sotto molti aspetti, perfino desiderabile. A chi non piacerebbe vivere in pace perenne, sotto una governo che offre svaghi continui, salute, affrancamento dalla vecchiaia, sesso libero e perfino droga, allorquando si presenti una fastidiosa punta di insopprimibile angoscia? Forse ci si potrebbe rammaricare che la società sia ordinata per classi e la popolazione «modellata come un iceberg; otto noni al di sotto della linea d’acqua, un nono sopra»; ma a chi importerebbe se coloro i quali si trovano sotto la linea d’acqua godono per le «sette ore e mezzo di lavoro leggero e non estenuante», senza dimenticare poi «la razione di soma — la droga possente e innocua di cui sopra — e i diporti e le copulazioni senza restrizioni e il cinema odoroso»?
Tra i tanti rapporti ambivalenti di Huxley, un posto di rilievo lo occupa quello con l’America. Già nel 1918 lo scrittore si rammaricava per «l’inevitabile accelerazione del dominio americano sul mondo»; in seguito, quando nel 1931 si recò per la seconda volta negli Stati Uniti, dichiarò che il viaggio era motivato dal bisogno di «conoscere il peggio, cosa che, credo, ognuno debba fare di tanto in tanto». C’erano tutte le basi per la condanna senza appello di un sistema che in apparenza è democratico ma di fatto pratica la censura economica: «In una democrazia capitalista, come gli Stati Uniti, la Grande Impresa cade sotto il controllo di quelle che il professor C. Wright Mills definisce élite al potere. Questa élite impiega direttamente la forza lavorativa di milioni di cittadini nelle sue fabbriche, nei suoi uffici, nei suoi negozi, altri milioni controlla, e anche meglio, prestando loro soldi perché comprino i suoi prodotti; ed essendo proprietaria dei mezzi di comunicazione di massa, influenza pensieri, sentimenti e azioni di tutti, in pratica». Nonostante ciò fu proprio in America che egli scelse di trasferirsi e fu proprio a Hollywood, da lui definito «il posto completamente agli antipodi di dove si possa vivere», che finì per morire. E proprio l’America — la California, in particolare — è all’origine di Un mondo nuovo. Huxley vi si recò per la prima volta nel 1926 e durante la traversata del Pacifico, scoprì nella biblioteca della nave My life and work, l’autobiografia di Henry Ford, altra fonte di fondamentale ispirazione per lo Stato Mondo del romanzo che è per l’appunto ambientato in un futuro dove lo spartiacque del calendario non è più la nascita di Cristo ma quella del magnate dell’automobile, un futuro dove il simbolo della croce è diventato una T, in devota memoria del primo modello prodotto integralmente secondo i metodi della catena di montaggio e del lavoro specializzato.
3) CIVILTA’ SENZA OPPOSIZIONE. Ecco, in mezzo a tanti piaceri e divertimenti siamo così inebriati che non serve più il controllo dall’alto. In una civiltà-senza-opposizione niente risulta veramente pericoloso per la società, in quanto tutto diventa al limite distrazione, svago, capriccio. Anche le tesi radicali, l’antagonismo, tutto quanto. Interessante, a proposito, la tesi di Michel Clouscard (su l’intellettualedissidente)
Testimone di un cambiamento tanto importante da modificare il modus vivendi dell’intera pensiola italiana – indiscriminatamente da Nord a Sud – fu Pasolini.Oltralpe, in Francia, Michel Clouscard, filosofo e sociologo, analizzò con un lessico simile lo stesso processo: la morte e la resurrezione del Capitalismo nella sua forma più avanzata, quella inquadrata nella democrazia libertaria: il Nuovo Potere. E con Potere non si parla più di politica. Il Potere si è spoliticizzato, è altrove, ora manovra le coscienze, deforma la percezione delle cose, convoglia le masse verso i suoi interessi seducendole come fossero i loro.La frattura più importante, secondo Michel Clouscard, fu il piano Marshall del 1946. Gli Stati Uniti investirono sul continente Europeo per inserirlo al meglio nelle sue logiche, per imporre il tanto amato cambiamento, per salvare il capitalismo: ci vollero soldi, musica, nuovi modelli: il poster, il flipper e il juke-box, il rock, il cinema.Il tutto culminò negli anni 60′. Le porte erano aperte, la propaganda del Capitale fu un successo: l’apogeo di un mercato nuovo, prima inesplorato. Quello del desiderio. L’ideologia – perché madida di significati, di simboli, rimandi, usi, gestualità e status dell’individuo nell’utilizzazione dell’oggetto – del neo-capitalismo. Il mercato era pronto, ora bisognava fare l’individuo-consumatore, ora l’individuo doveva integrare alle sue istante intrapsichiche (Io, Super-Io, Es) le regole del gioco. Si necessitava di inconscio, di permissione, di evasione: il godimento e l’edonismo dovevano essere la norma, la nuova morale: godi! Anche l’anima può essere colonizzata dall’ideologia del mercato: il mondano.
Lo stesso rock, secondo Michel Clouscard, che analizza con profondità scientifica la materia, è espressione dell’ideologia capitalista. Quello che le giovani generazioni del dopoguerra hanno elevato a strumento di emancipazione si rivela pura ideologia della macchina. Jimi Hendrix bruciò a Woodstock la sua chitarra, quante se ne comprarono successivamente? Chitarra non come strumento musicale, ma come oggetto mondano, che impone attraverso l’uso una condotta, che diventa un segno: il segno di uno status che impone a sua volta la partecipazione ad un gruppo partecipe dell’ideologia consumista e neo-edonista. Ma approfondendo ancora il rock, in quanto ritmo, Clouscard ci dice che questa musicalità è in sé vita puramente macchinale, artificiale, vita d’automa: “di gesto in gesto, di segno in segno di condotta in condotta: la sistematica dell’apparire costituirà l’essere. L’essere mondano”. Il ritmo del rock è scansione binaria, ripetizione, è rifiuto e negazione: dell’altro, rifiuto dello scambio. Si danza da soli, rinchiusi in sé stessi, meccanicamente, il corpo non fa altro che cedere alla sua pesantezza, alle sue voglie: al desiderio, all’ideologia. E’ un ritmo conservatore e reazionario, è il ritmo della produzione capitalista. Questa dinamica che inizialmente è solo gestuale, diventa poi psicologica, ed infine sociologica. Le anime sono colonizzate!
4) AZIENDA, LAVORO. Un brano di Zygmunt Bauman sulla grande svolta epocale del mercato del lavoro, quando il mercato del lavoro diventò finalmente un mercato di merci quasi del tutto uguali a tutte le altre merci, e toccò al lavoratore di pensarsi come una merce, per adeguarsi nel modo migliore allo stato delle cose. In altre parole: Devi essere motivato, te lo devi far piacere, ci devi avere la passione, devi essere spendibile, bisogna sapersi vendersi.

L’ultimo scorcio del ventesimo secolo è stata l’epoca di quel a che merita di essere chiamata la «grande trasformazione-stadio 2»: un cambiamento che ha colto di sorpresa e impreparati sociologi sia esperti che non iniziati. Proprio mentre quasi tutti i membri del a
professione sociologica erano intenti a mettere a punto gli ultimi dettagli del a gestione scientifica mascherata da «scienza
comportamentale», proprio mentre scoprivano nel o «stato corporativo», nel a «società amministrata» e nel a «fabbrica fordista» la forma del e cose future, proprio mentre seguivano Michel Foucault che indicava nel Panopticon di Jeremy Bentham “il” prototipo e l’incarnazione ultima del potere moderno, le realtà sociali iniziarono a esplodere e ad erompere dal a loro fitta rete concettuale, sempre più velocemente.
L’essenza del ‘odierna grande trasformazione-stadio 2 è il crollo delle ambizioni del ‘«ingegneria sociale» e del e forze disposte e
capaci di realizzarle. Ancor prima che Jean-François Lyotard potesse dichiarare la dipartita delle «grandi metanarrative», il declino dei grandi modelli di «ordine societario» preordinato e rigidamente amministrato era già ampiamente in atto; la condotta sociale registrò un’autentica svolta epocale, magnificamente catturata (con l’aiuto del senno di poi) nel a secca dichiarazione di Peter
Drucker: «Niente più salvezza da parte del a società».
La «rivoluzione manageriale», al suo apice al orché James Burnham la scoprì e la presentò come (e cosa, altrimenti?) un altro
evento inevitabile, ha avuto la propria controrivoluzione e restaurazione e ha invertito la rotta. Oggigiorno l’arte dell‘amministrazione è sempre più fondata sul rifiuto di amministrare e sul lasciare che gli oggetti amministrati di ieri trovino – al pari del e divise nel ‘odierno mondo di tassi deregolamentati – «il proprio livello». Oggi il potere ha trovato strategie più eteree, meno onerose, meno oberanti e meno restrittive rispetto al a continua e onnipresente sorveglianza, al a meticolosa regolamentazione taylorista e alle dense reti di sanzioni, tutte cose che richiedono imponenti uffici amministrativi e guarnigioni permanenti sul territorio conquistato. Si ha l’impressione che il capitolo del governo in stile Panopticon stia per concludersi.Seguendo l’esempio del e fabbriche «fordiste» e dei casermoni degli eserciti di leva, le goffe, ingombranti, fastidiose e soprattutto
costosissime strutture panottiche vengono oggi gradualmente smantellate ed eliminate.
Non è più compito dei dirigenti tenere in linea i subordinati e guidare ogni loro mossa; e là dove questa incombenza ancora esiste,
tende a essere sdegnosamente considerata controproducente ed economicamente insensata. Adesso tocca ai subordinati farsi notare dai superiori, competere tra loro per catturarne l’attenzione e invogliarli ad “acquistare” servizi che un tempo i superiori, nel a loro passata mansione di capi, sovrintendenti o capomastri, li “obbligavano” a fornire. Come afferma l’economista della Sorbona Daniel Cohen, «non esistono più colletti bianchi che danno ordini ai colletti blu: esistono solo colletti di vario colore con davanti il proprio compito da risolvere». Non resta granché del a gestione dei dirigenti allorché tocca a chi è diretto dimostrare il proprio valore e convincere i dirigenti che non si pentiranno di averli assunti. Ai dipendenti è stato «conferito
potere», un premio che tuttavia si riduce al ‘onere di doversi rendere importanti e meritevoli agli occhi dell‘azienda. «Non è più l’azienda che controlla i suoi dipendenti. Adesso tocca ai dipendenti dimostrare [la propria utilità] all‘azienda».Questa svolta epocale è stata da molti salutata con panegirici ispirati a un incondizionato entusiasmo. La dissoluzione del e
routine di stampo manageriale è stata definita uno storico atto di «conferimento di potere», il trionfo ultimo dell‘autenticità e dell‘autoaffermazione del ‘individuo che la modernità nel primo periodo della sua storia mancò abissalmente di offrire, producendo al contrario, e su scala immensa, la mentalità remissiva e mansueta, gretta e conformista di chi è «diretto da altri». La svolta che è in atto può essere qualunque cosa i suoi panegiristi e adoratori proclamano che sia, ma di certo preannuncia, come Boltanski e Chiapel o ci hanno spiegato, la fine della sicurezza un tempo associata allo status, al a gerarchia, alla burocrazia, alle carriere preordinate e al e occupazioni fisse. Il vuoto lasciato dalla sicurezza e dalle visioni e pianificazioni di lungo periodo è riempito da un sempre più vorticoso susseguirsi di progetti episodici, ciascuno dei quali offre, in caso di successo, solo una piccola “chance” in più di «impiegabilità» in altri progetti ancora vaghi e nebulosi, ma di certo brevi o esplicitamente a tempo determinato. I progetti sono palesemente a breve termine e «fino a ulteriore notifica»; e dunque è la loro profusione, la loro offerta crescente, preferibilmente in eccesso, che si crede e si spera compensi la mancanza di durata e di prospettive sicure. L’integrazione tramite il succedersi di progetti a breve termine richiede scarso o nessun control o dall‘alto. Nessuno deve obbligare i corridori a continuare a correre; per quanto riguarda la condizione fisica necessaria per restare in gara, l’onere del a prova è decisamente passato a carico dei corridori e di chiunque desideri partecipare al a gara. Parlando in termini di costi e risultati (l’unico modo di parlare che abbia «senso economico»), non esiste forma di controllo sociale più efficace dello spettro dell‘insicurezza che incombe sui controllati. Tale spettro ricorda loro ciò che RalphWaldo Emerson osservò molto tempo addietro: «Quando si pattina sul ghiaccio sottile, la salvezza sta nella velocità».
I «nuovi e migliori» rapporti di potere seguono il modello del mercato dei beni di consumo, il quale pone l’allettamento e la seduzione nel posto un tempo occupato dal a regolamentazione normativa e ha sostituito l’arte del comando con le pubbliche relazioni e la sorveglianza e il controllo con la creazione di bisogni. E’ vero che le tecniche ortodosse di integrazione coadiuvata dal potere, nel complesso oggi scartate come sistema per tenere in pugno la situazione, continuano a essere applicate per tenere a distanza o confinare, in modo che non faccia danni, la «sottoclasse» degli esclusi, o coloro che si dimostrano ciechi al a seduzione e sordi al a pubblicità, o che sono troppo poveri o indolenti per rispondere
adeguatamente all‘una o al ‘altra. Ma per la gran parte di noi le nuove tecniche del potere offrono una spesso entusiasmante esperienza di maggiore libertà di scelta e possibilità di fare scelte razionali (secondo alcuni sociologi lesti nel riformulare la nuova forma di dominio in teorizzazioni scientifico-sociali, oggi siamo tutti «selezionatori razionali» e lo siamo sempre stati sebbene, come tanti M.Jourdain di Molière, in passato non ce ne fossimo accorti). Come acutamente afferma Ulrich Beck, «il modo in cui si vive diventa la soluzione biografica a contraddizioni sistemiche».
Le nuove tecniche di domino si risolvono in un’endemica inconcludenza delle scelte fatte e fin troppo spesso nel a loro assoluta irrilevanza, cosicché il compiere una data scelta non esclude altre scelte future, mentre tutte le scelte si rifiutano di rientrare in un progetto valido «a vita», come invece era un obbligo ancora fino a pochi decenni fa. Una refrattarietà che certo non sorprende, dal momento che dal «sistema», ora privato di un quartier generale dotato di indirizzo permanente, continuano a giungere quotidianamente e sempre più profusamente solo segnali flebili e confusi, controversi e contraddittori. Un’identità flessibile, una costante volontà di cambiare e capacità di farlo subito, e un’assenza di legami del tipo «finché morte non ci separi», anziché la conformità a standard elementari e una ferrea fedeltà ai model i prescelti, sembra la meno rischiosa del e strategie di vita
concepibili.
Tutti questi sono cambiamenti davvero profondi; la realtà sociale non è più quel a che soleva essere all ‘epoca in cui i padri fondatori della sociologia si accinsero a svelare il mistero della società mascherata da fato umano; e neanche quella che fu per un certo tempo in epoca successiva, allorché George Orwel e Aldous Huxley ritrassero gli incubi dei loro tempi: un totalitarismo esplicito per l’uno, un totalitarismo mascherato da obbligo universale a una felicità severamente razionata per l’altro. E neanche quel a che apparve ancora dopo a Hannah Arendt, che attribuì alla società moderna un’endemica tendenza totalitaria, o a Michel Foucault, che individuò nel Panopticon di Bentham la chiave per comprendere il meccanismo del a realtà sociale. E così la vita non è più quel a che soleva essere per i suoi utenti in quei tempi ormai remoti. Il contesto del a vita umana e il significato di una strategia di vita ragionevole sono mutati: riuscirà la sociologia, dedita al o studio di quel contesto e di quel a strategia, a fare altrettanto? 
La società sotto assedio, Zygmunt Bauman

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