Dal palco il primo attore urla al pubblico brandendo una spada: «Si faccia sotto chi vuole morire». «Io» avrei voluto gridare alzandomi in piedi dal fondo del Teatro Menotti di Milano dove lo scorso dicembre andava in scena Mercuzio non vuole morire. «Io! Pur di non scrivere di questo spettacolo». A presentare la pièce era la Compagnia della Fortezza, noto gruppo di lavoro formato all’interno del Carcere di Volterra. Quella della Fortezza è la più antica e celebre compagnia di detenuti-attori d’Italia ed è conosciuta in tutto il mondo anche grazie a suoi componenti divenuti celebri, su tutti Aniello Arena, il premiato protagonista di Reality di Matteo Garrone. Provo, dunque, un forte imbarazzo a dover esprimere un’opinione negativa su quest’opera risultata, nonostante i nobili fini che la sottendono, poco convincente. Uno spettacolo corale con quasi cinquanta attori in scena. L’intenzione di Armando Punzo, suo regista e ideatore, era quella di portare sul palco il classico dei classici, Romeo e Giulietta di William Shakespeare, ribaltandolo e tradendolo. Al centro della vicenda per questa volta non c’erano i due innamorati, ma Mercuzio, che sfuggendo alla trama della tragedia si rifiuta di morire, si rifiuta di smettere di sognare. E sembra proprio di essere nel mondo dei sogni, dove i contorni sono sfocati e non vi è alcun filo logico da seguire. Per quanto mi sforzassi di trovare una trama non riuscivo e sbigottita continuavo a girarmi verso gli altri spettatori cercando nei loro volti un appiglio per continuare ad andare avanti. Come in una insonne notte quando ci si ritrova a rigirarsi nel letto cercando la posizione migliore per prendere sonno. Una melodia continuava ridondante a fare da sottofondo, senza fine. Dance of the Knights, il brano di musica classica scritto dal compositore russo Sergei Prokofiev per il suo balletto Romeo and Juliet.
E poi le parole dell’attore che sembravano venire dall’inferno: «Io ho bisogno di voi, non vi ho mai abbandonato. Dormite?! Ma come fate a dormire? Io vi amo, non vi ho mai dimenticato. Ho bisogno di voi. Io sono l’attore, il poeta, il musicista». Una scenografia mutevole sullo sfondo: enormi quadri, pezzi di statue componibili, un trittico di Verona distorta. Era come trovarsi in Alice nel paese delle meraviglie, i personaggi erano più piccoli e insignificanti degli oggetti attorno a loro. Fino al punto in cui vedevamo apparire Quasimodo, il gobbo di Notre Dame, oppure It, il pagliaccio assassino, e allora forse ci si rendeva conto che non si trattava più di un sogno ma di un incubo. L’anima smarrita del sonatore delle notti bianche si muoveva sul palcoscenico e alla fine decantava che «vivere è di gran lunga più difficile di morire». Presenti alcuni momenti di poesia come nella parte finale quando tutto il pubblico si è alzato in piedi issando un libro, portato da casa e con un particolare valore simbolico, come bandiera della bellezza e della cultura. Una magnifica immagine gratuitamente inserita in questo pot-pourri di messaggi che necessitavano forse di maggiori conoscenze per essere colti nella loro complessità. Chissà cosa avrebbe pensato Shakespeare di questo ribaltamento di una delle sue opere più famose e di questa psichedelica rappresentazione che, pur dispiaciuti, non ci sentiamo di promuovere.
In copertina: Mercuzio non vuole morire – Fotografia di Stefano Vaja