Meriggiare pallido e assorto: Montale, Pasolini, Carmelo Bene, Brian Solis e il sonnifero globale

Creato il 03 febbraio 2012 da Sirinon @etpbooks

La tentazione è forte. Quella di ritornare agli amori liceali, quelli delle letture vissute con un trasporto che poi con il tempo solo raramente si è ripresentato a sconvolgere tutti sensi. Non per colpa delle letture ma della freschezza e della vitalità che hanno lasciato il posto al dubbio che l’esperienza del passato induceva senza divenir subito chiara come invece nei grandi percepisci. Proprio come mi succedeva leggendo certo Montale, erede di passioni antiche e profeta di novità. Tanto nuove che la sua attualità, ancorché da altri disagi profondi derivata, oggi riemerge prepotente.

“ … Codesto solo oggi possiamo dirti, ciò che non siamo, ciò che non vogliamo …..”

Ed è tutto o quasi ciò che sento, ciò che vedo, in questa orgia da impotenza collettiva tanto masochista che di moda è tornato pure Carmelo Bene (al quale ben altra continuità di riconoscimento andrebbe!) che più volte ho visto citato in queste ultime settimane, proprio in quella sua esternazione televisiva (chissà perché tutti quella sembrano ricordarsi … pecoroni anche nella memoria) ove rivolgendosi come sempre a tutti ed a nessuno che in realtà, come ben sapeva, era la stessa cosa, da fine intellettuale apostrofava “… voi impugnate l'ovvio, applaudite l’ovvio, ne avete fatto una minchia di questo ovvio, in cambio della vostra e del vostro comizio cui siete dannati, ma io non vi sfido: non vi vedo!...”. Una sfida giocata in punta di provocazione pungente enfatizzata dai toni dannunziani del vate cui tanto teneva nelle sue esternazioni e nei suoi spettacoli che, tra l’altro, avevano il pregio di poter essere visti due, tre volte, sicuri di non trovarli mai uguali. Altro che certa arte passeggera oggi impropriamente definita evento o performance o ancora happening che di buono ha solo il fatto di essere tale e che quindi, giustamente niente lascia se non un vuoto nuovamente da colmare. Non tutta ci mancherebbe altro, ma certo universalmente effimera.

Un Carmelo Bene che poi insiste “…Chi dice d’esserci è coglione due volte: primo perché si ritiene Io, secondo perché è convinto di dire; è coglione una terza volta perché è convinto di dire quel che pensa, perché crede che quel che pensa non sian significanti, ma sian significati, e che dipendano da lui…”. Gioca dunque a mettere in difficoltà intervenendo addirittura con il gioco della struttura del linguaggio (chi ha volgia vada a leggersi Ferdinand de Saussure), secondo la quale lo stesso si articola tra il significante che è la forma che si dà con le parole ad un concetto ed il concetto stesso, cioè il significato che si vuole esternare con l’aiuto della parola ovvero del significante(tradotto: colui o ciò che sta a significare).

Condannando tutti quindi a questa orgia di ovvietà alla quale assistiamo, ovvero al teatro della denuncia, al riempirci di parole di sdegno che divengono il nostro significantema - ahimé - anche il nostro significato, come se godessimo e ritenessimo appagata la coscienza nel comunicarci l’uno con l’altro che siamo, o meglio, “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. Perché questo soltanto sembra che si conosca. Ciò che non siamo più, o ciò che non siamo mai stati, o ciò che non saremo oltre al fatto di avere la presunzione di conoscere ciò che non possiamo. Ma, notate bene, da chi altri dovrà dipendere ciò che non possiamo? Sempre e solo da altri ed a noi, o a voi, il ruolo stantìo della povera vittima, dell’agnello sacrificale, anzi, sacrificato?

E allora preferisco, richiamare l’altro Montale, quello che mi aveva fatto esordire e torno a “meriggiare pallido e assorto” perché voglio capire e per farlo cerco stavolta di distaccarmi dalle cose per percepire quel senso di continuità che c’è indiscutibilmente nel passaggio generazionale, nell’avanzar nel tempo (non si può qui dire progredire né proseguire fino a che non si capisce) e delle cose.

Fu già Pasolini che ci ricordava come negli anni ’70 era in corso una “mutazione antropolgica degli italiani” che per lui preludeva ad un disfacimento dei sistemi tradizionali dei valori a vantaggio della incipiente e snaturalizzante globalizzazione, che era di là da venire al tempo, ma che il consumismo ed un certo tipo di mercato già facevano intuire. Quella dell’antropologia è forse una scusa per dare giustificazione di certi avvenimenti ricorrenti però resta il fatto che, con una certa regolarità, i rapporti sociali hanno seguito un’alternanza di periodi che potremmo definire di evoluzione e periodi di assopimento. Ed ecco che l’antropologia si inserisce come scienza che giustifica il fatto di come questo comportamento sia strutturale, ovvero frutto di un sistema comportamentale della società.

Ma se riesco con questo ad appagare il ventre delle giustificazioni, devo dunque individuare questa fase come una di quelle fasi di assopimento che seguono l’evolutività degli anni settanta e che - se la teoria è valida - precede un nuovo periodo di risveglio. Perbacco, quasi quasi mi torna la speranza a rifiorir!

Ma non vedo segni, né segnali, né linguaggi se non l’orgiastico perseguire della condivisione e della creatività messe a frutto della forma e, non più, della sostanza. Memore ne sia uno stralcio d’intervista letta (e vista) di un (misconosciuto nella mia ignoranza) esperto di social media, Brian Solis, che, in merito all’utilizzo degli stessi da parte del mondo commerciale (ma vi sfido a cogliere la differenza con certi oramai universali comportamenti degli internauti), con evidente occhio al risultato, ovvero all’impatto sul comune utente della rete, afferma: “ .. l’altra cosa che ho notato è che c’è stata una diminuzione della produzione di contenuto proattivo perché è così facile da usare il contenuto degli altri e avvolgere le tue parole intorno ……. [tuttavia] … il contenuto che curo e su cui metto le mie impressioni potrebbe avere interesse per te e dunque il nostro rapporto si rafforza in base al contenuto che sto impacchettando per condividere con te…”. Ma questo l’aveva già detto Carmelo, Bene: “…voi impugnate l'ovvio, applaudite l’ovvio..”. Praticamente niente aggiungete al già conosciuto, al già accaduto, al già consumato, se non gravare l’avvenimento stesso non di spiegazioni né di ragion d’essere, quanto di commenti, molto spesso riempiendosi bocca e coscienza di nuova e sofisticata nomenclatura senza capirne né il significato né perché ci si debba votare all’inglese come per un impulso verso una globale comprensione, che é comprensione dei mezzi ma non degli intenti né degli obiettivi, anche se tutti la scambiano per tale (il solito giochetto tra significante e significato).

Così si plaude al ruolo dei media nelle primavere arabe, ma poi si scordano come un qualsiasi media, si plaude alla caduta del Cavaliere, cercando poi, forsennatamente un sostituto e, non trovandone, tributando a lui anche il non augurabile merito di ineguagliabile fra i coglioni (come Carmelo approverebbe), smarriti alla ricerca di qualcuno che possa ahimé surrogarne la mancanza. Scarsi per il momento i tentativi dei sostituti.

E torno a meriggiare pallido e assorto, a constatar ch’è vero, come sempre sia più facile, lamentar di ciò che non si ha, di ciò che non si è, piuttosto che non cercar di essere qualcosa, quale che sia, fors’anche il perfido coglione di Carmelo piuttosto che non di questo epiteto coprir le spalle altrui cercando, invano, di lavarsi la coscienza ed acquietar la repressa insoddisfazione. Di rendere netto e pulito quel pulpito dal quale predichiamo, incapaci di rinunciare a qualunque cosa sia, perché al diritto par che non vi sia retromarcia costi pure l’annegarsi e il vendersi al prossimo untore, salvo poi per umana rappresaglia invitarlo al gioco della crocifissione quando, di sottecchi, c’ha comunque privato del diritto .. e dell’onore. Ma è sempre Brian che ci illumina, da esperto digitale, asserendo l’esistenza di un “…darwinismo digitale, ovvero quel fenomeno che si verifica quando la tecnologia e il comportamento dei consumatori cambia più velocemente della capacità di adattarsi delle aziende..”., affermando in ciò quanto si sia divenuti onnivori di AVERE il nuovo ed il diverso in una corsa folle verso l’estremo di possedere il futuro, prima degli altri. E in questa folle corsa si dimentica di ESSERE, trovandoci dunque, come unica possibile affermazione: “ … ciò che non siamo, ciò che non vogliamo…”, aspettando che qualcuno, arrivi presto, ci plachi la sete per darci ciò che manca e con esso, una parvenza di identità. Ed il cerchio anche stavolta sembra chiudersi perché, udite udite, Brian, nell’analizzare il risultato digital-mediatico, invita a predente coscienza non dei risultati ottenuti in termini di click, quanto a prendere atto che “ … quello che davvero conta è il numero di menzioni, like, follower e commenti che non ci sono…”, ovvero a riproporci il vecchio adagio di Montale, solo che allora era una questione di identità perduta, oggi una quantità non acquisita. E non è vero che ciò riguarda solo le aziende poiché, conoscendo la situazione di diffusissima crisi, sappiamo perfettamente che tali regole sono valevoli ed applicabili ai dubbi dell’80% dei blogger, visto che del 20% restante, il 15% ci lavora su come professionista e l’altro 5% fa parte di quei personaggi popolari che qualsiasi cosa facciano o affermino o confutino vengono pecorosamente, quanto molto poso decorosamente seguiti.

Ma il mio meriggiare era destinato a ben più ampio scenario. Quello scenario per cui chi effettivamente gestisce, non è sulla rete. O quanto meno non vi è nei modi consueti e conosciuti. Ad altri lascia il ruolo di imbonitori. E nella coscienza di sapere ciò che non siamo, nella convinzione che condividere significhi Essere, forsennatamente inseguiti da quel mercato globale che pare addirittura stenti a contenerci ed a soddisfarci, i più forse, dimenticando che già oramai è realtà consolidata, s’indignano, fanno gesto d’orgoglio ferito, con colui che, a sua volta, sbatte a tutti in faccia una ovvietà, dicendo che il lavoro stabile e sicuro non esiste più. Ora perderemo tempo, tanto tempo, forse tutto il tempo, a dare a costui del coglione dimenticando, come Carmelo ebbe ad insegnare inascoltato, che ciò che diciamo e facciamo non è sostanza, ma forma che diamo ad una rabbia tardiva la quale non merita altro che al danno, anche la beffa. Ci ha detto cosa conosciuta, solo che il suo coraggio nell’affermarla è stato scambiato per una novità, pronti come siamo prima a bere, poi a diffondere e poi a rendersi conto che ormai eravamo già intasati, e nauseati della verità che la nostra pelle e, soprattutto la vostra, aveva già sperimentato.

Non saranno mille condivisioni o piazze virtuali a ridare né il lavoro certo né quanto si sta sgretolando senza che vi sia una reazione quale quella che ci si dovrebbe attendere. Siamo, per farla con Pasolini dunque, in una fase di antropologico sonno sociale? Beh, mi sembra giunta l’ora che vi svegliate, mi sembra giunta l’ora che anche voi proviate a costruire, ma non con la tastiera, il web non può diventare il nuovo pubblico impiego; al resto, al benessere sociale, alla democrazia, pensa lo Stato. Anche Carmelo vi concordava: “… Lo Stato si occupa della mediocrità della democrazia, 65 milioni di Italiani, da imbecilli, votano questo Stato, che è il loro stato di cose, quello che è stato è Stato e quindi non è stato mai …”, significandoci l’impotenza di questo tipo di Stato a cambiar le cose. Da parte mia ho solo una certezza, che voi rifuggite peraltro, forse obnubilati da questo nuovo paradiso virtuale nel quale qualsiasi cosa che si produca di fatto è irrealmente fuorviante, dove l’esternazione, quale che sia, è divenuta surrogato della libertà, dove lo sdegno acquista forma di condanna e dove un migliaio di “mi piace” acquisiscono il ruolo dell’unanimità. Là vi è la mia certezza, che più restate davanti al video dove tutto con maggior raffinatezza vien servito dal viaggio al sesso, al gioco, al lavoro, all’intrattenimento, all’informazione che poi è manipolazione spesso di infinitesima mano di quanto già successo, dove ogni atto socialmente condiviso viene sponsorizzato, enfatizzato, indotto ad incrementare anche qui i meccanismi di un mercato già conosciuto che vi tiene sempre più impegnati a non fare. Una piazza dove il solo dove aderire al fare è significante e significato di fare. Là sarà la vostra capitolazione. Il vostro autogol. Là si compirà il grande inganno di questa apparente libertà, di questo falsa indipendenza ch’é invece lasciar la piazza libera a chi, lontano dal giocare alle interpretazioni dell’essere animali sociali, utilizza questi strumenti per rendervi ancora più incapaci di distaccarvene, presi come siete dal turbinar dei commenti, delle twittate, dell’essere aggiornati. Su cosa? Su quanto è già accaduto, fuori, senza che ve ne accorgiate. Fino a quando uscirete di casa e troverete “..ciò che non siamo, ciò che non vogliamo…”, dimentichi che la vita è invece “…sentire con triste meraviglia 
com'è tutta la vita e il suo travaglio 
in questo seguitare una muraglia 
che ha in cima cocci aguzzi di bottiglia….” e se non la si prende con rabbia, forza e determinazione, sarà un gioco al quale parteciperete solo da spettatori, paganti, anche se lo spettacolo non sarà di vostro gradimento.


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