Crisi economica, terremoti, calcioscommesse, weekend piovosi … basta! ci meritiamo di più, guardare questi 11 film de chevet con finale edificante, non potrà che farci stare meglio: Vittorio De Sica e Gina Lollobrigida, Paul Newman e Robert Redford, Tom Hanks e meg Ryan, Sylvester Stallone e Pelè …
Film de chevet
Chevet in francese significa più o meno comodino. Le livre de chevet si tiene sul comodino per per sfogliarlo, rileggerlo, accarezzarlo. Come i libri, i film de chevet si amano, si guardano, si sfogliano, si accarezzano, si portano sempre con sé.
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11 film de chevet carichi di speranza
I film de chevet su feste e party
Baciamoci così in 11 film de chevet
L’amore improbabile in 11 film de chevet
Ci sono momenti in cui si ha bisogno di buone notizie, di qualcosa che ci aiuti a pensare che ce la possiamo fare, che i momenti difficili saranno superati e che le storie impossibili saranno vissute. Ecco guardiamo questi 11 film con lieto fine garbato, con l’amore a lieto fine, con un finale intelligente, con lieto fine quando non ci si credeva più (e come avremmo potuto crederci), con un finale in cui ce la si fa grazie alla nostra forza e testardaggine, con un lieto fine quando nessuno credeva in noi e invece ce l’abbiamo fatta (visto che avevi ragione?). Perché la vita non è un film, ma un film può aiutare a vivere meglio.
[Attenzione: spoiler, se leggete i titoli qui sotto inevitabilmente saprete che poi il film avrà un lieto fine]
La grande illusione
[tit. orig. La grande illusion] di Jean Renoir, 1937. Con Jean Gabin, Pierre Fresnay, Erich von Stroheim, Dita Parlo
“– Non sparare, sono in Svizzera. – Meglio per loro.”
Se restiamo qui alla finestra a guardare non ce la facciamo mica
Capolavoro pacifista che Renoir scrisse e girò in reazione ai film che descrivevano la guerra con monocorde tono retorico e macchiettistico, La grande illusione è un grande film con un grande finale lieto: la salvezza. Prima guerra mondiale, 1917: due aviatori francesi, il borghese Maréchal (Jean Gabin) e il nobile de Boëldieu (Pierre Fresnay), vengono abbattuti dal famoso ufficiale tedesco von Rauffenstein e fatti prigionieri. Passano da un campo di prigionia all’altro senza cessare di tentare la fuga fino ad approdare a una fortezza inespugnabile, diretta proprio da von Rauffenstein, che ferito in combattimento ha ripiegato su compiti amministrativi (un indimenticabile Eric von Stroheim costretto in una “minerva”, cioè un busto rigido che arriva al mento e regge la testa). Anche da qui tentano la fuga: il nobile si sacrifica e Maréchal scappa insieme al prigioniero ebreo Rosenthal. I due si rifugiano presso una buona vedova di guerra, che li nasconde, e ci scappa anche una mezza storia d’amore prima della fuga definitiva, fortunosa e fortunata, oltre il confine svizzero. Insieme all’inutilità alla guerra, Renoir sottolinea cinicamente in alcuni personaggi la forza dell’appartenenza a una classe sociale, quasi più potente dell’amor patrio: sopra ogni altro elemento, loda il coraggio individuale e collettivo di chi non si rassegna. “Se potessi salvare un solo film per i posteri, sarebbe La grande illusione” (Orson Welles)
Da vedere all’interno del castello di Haut-Kœnigsbourg (la fortezza del film), intrecciando corde con cui calarsi dagli spalti.
Maddai, ma allora sei davvero tu...
C’è post@ per te
[tit. orig. "You've got mail"] di Nora Ephron, 1998. con Tom Hanks, Meg Ryan, Parker Posey
remake di
Scrivimi fermo posta
[tit. orig. "The Shop around the corner] di Erst Lubitsch, 1940. con James Stewart, Margaret Sullivan, Sara Haden
“Volevo tanto che fossi tu; volevo che fossi tu con tutta me stessa.”
La difficoltà di trovare l’amore sembra una costante che attraversa il Novecento, tra la finta Budapest lubitschiana (si dice?) del 1940 e la New York ephroniana (dai, non si dice…) di fine millennio, dalle lettere spedite fermoposta alle e-mail annunciate da un trillo. Il lieto fine, anche. Equivoci e peripezie non fermeranno i nostri innamorati, che il destino condurrà doverosamente al salivare avvinghiamento sui titoli di coda. Nel remake (un filmetto) del film di Lubitsch (un capolavoro), Ephron ci imbroglia, illudendoci che l’evoluzione tecnologica non abbia cambiato le relazioni sentimentali: le e-mail che Meg Ryan e Tom Hanks si scambiano sono un aggiornamento anni Novanta delle pagine vergate a mano nella finta Budapest da James Stewart e Margaret Sullavan, durante solitarie serate prive di canali sky e social network. Beh, è una balla.
Ecco, così ... avvicinatevi ancora un po' ... un altro passettino...
Il pregio di Ephron è rivelarci l’immutato fascino (oggi che cellulari e computer ci offrono immensa maggiore libertà di tresca e reperimento di sesso libero e giocondo) di una relazione tra sconosciuti fatta di sole parole, senza sguardi e senza odori, senza verifiche, volendo senza verità. Elettronico o cartaceo, è il mistero a vincere: che poi queste due coppie finiscano per innamorarsi anche nel mondo reale, è secondario, persino banale. Un lieto fine che piace ancora parecchio.
Da vedere chattando con l’amante, una/o di Budapest o di New York, non fa differenza.
Pane, amore e fantasia
Vittorio De Sica porta
Marisa Merlini sul cannone della bici. Sai che belle battute farà suo figlio Cristian
di Luigi Comencini, 1953. Con Vittorio De Sica, Gina Lollobrigida
“ma la povera gente già ce sta all’inferno, don Emì. E ce resta, a furia de bestemmie, ladrocini e disperazioni de Dio”L’Italia del primo dopoguerra è un paese povero in cui in mezzo al pane ci si mette un po’ di fantasia perché altro non c’è. Però ci si aiuta, ognuno cerca di fare la sua parte per riempire il suo pane dell’unico ingrediente in grado di rendere appetibile la vita che è, appunto, l’amore.In un paesino dell’Italia centrale arriva l’esperto, esperto sembra soprattutto in affari di cuore, maresciallo dei carabinieri Vittorio de Sica e incontra la procace contadina Gina Lollobrigida, la bersagliera. Il resto è pura commedia dell’arte con maschere e caratteristi che ci parlano di un’Italia che non c’è più, di un’Italia che vive e si diverte in modo lieve e con una grazia che oggi abbiamo dimenticato.
La Lollo entra in scena a dorso di un somaro ed ha il mondo ai tuoi piediIl tutto è nobilitato da una meravigliosa
Gina Lollobrigida che trasmette una carica sensuale ed un’energia vitale deflagranti sin dal suo ingresso in scena scalza, sul dorso di un somaro. E da un Vittorio De Sica straordinario nella parte di un personaggio reduce da non si sa quali disavventure famigliari (negli anni cinquanta di queste cose non si para) ma che non perde mai la voglia di mettersi in gioco, di spendersi per sé e per gli altri, un personaggio che in qualche modo gli assomiglia.Se questo film dei anni cinquanta è il padre delle commedie di oggi allora nel frattempo qualcosa nel cinema e nel paese è andato storto. Ma proprio riguardare sorridendo come eravamo quando si stava peggio durante la ‘famosa crisi’ degli anni dieci dopo il 2000 è una panacea per il nostro cuore.
Da vedere insieme ad una donna bellissima che spingerai tra le braccia di un tuo amicoArrendetevi voi: questi sono i due più gran figaccioni della storia
La stangata
di George Roy Hill, 1973. Con Paul Newman, Robert Redford.
“Luther disse che tu mi potevi insegnare qualcosa, ma come ci si sbronza lo so già”Un piccolo truffatore vuole vendicare un amico che per un piccolo sgarro è stato ucciso da un boss della mala. Cerca aiuto “nell’artista”, uno che ci sa fare veramente ma che è finito un po’ in basso. Con un plot da gangster movie La stangata è una commedia ricca di suspance e colpi di scena con una scrittura classicamente perfetta. La confezione elegante del regista George Roy Hill (“Butch Cassidy”, “Mattatoio 5”, “Il mondo secondo Garp”) e le musiche di Scott Joplin con quel ragtime che è entrato nell’immaginario collettivo musicale di tutti quanti fanno di La stangata un film perfetto, uno di quei rari film che non ti stanchi mai di guardare e riguardare. Nel 1974 vinse meritatamente 7 oscar tra cui miglior film, miglior regia, miglior sceneggiatura e miglior colonna sonora.
Questo sarebbe già più che sufficiente a rendere la visione della Stangata quanto di più holywoodianamente edificante, ma la vera forza del film sta nei suoi due protagonisti: Paul Newman e Robert Redford sono due degli uomini più affascinanti di tutti i tempi, qui sono al loro apice e ci fanno sembrare naturali la loro bellezza. Il finale memorabile è una vendetta servita con grande classe.
Da vedere vestiti con eleganza, non lasciando nulla al caso, convincendosi almeno per le durata del film di essere (in compagnia de) gli uomini più belli e affascinanti del mondoRagazzi date retta al mister che si vince
Fuga per la vittoria
[tit. orig. "Victory"] di John Huston, 1981. Con Sylvester Stallone, Michael Caine, Max von Sydow, Pelé, Bobby Moore, Osvaldo Ardiles, Kazimierz Deyna
“Questa guerra è tutta uno spiacevole errore.”“Se le nazioni potessero affrontarsi in un campo di calcio non sarebbe una soluzione? Che cosa ne direbbe di giocare una partita contro una squadra della Wermacht?”Sulla carta non non si può immaginare niente di più opprimente, degradante e mortalmente pericoloso di un campo di prigionia tedesco durante la seconda guerra mondiale. Ma il cinema e il calcio possono tutto. E John Huston sa come trasformare la storia in mito: prende un pugno di leggende del calcio, Ardiles, Bobby Moore e addirittura Pelè (siamo nel 1981, Maradona è ancora un bambino e nessuno immagina che prima o poi arriverà qualcuno “mej e Pelè”) piazza Sylvester Stallone in porta, li fa guidare dall’immenso Michael Caine che, raccogliendo la sfida di un alto ufficiale nazista (addirittura Max Von Sydow) organizza una partita di calcio tra prigionieri alleati e una specie di nazionale militare nazista.
Calcio e cinema raramente sono andati d’accordo, ma qui non ci sono wags o scommesse, qui si gioca per avere uova. carne e verdure fresche nel rancio, per raggiungere la libertà e soprattutto per mostrare a tutto il mondo che la razza ariana non è poi così superiore anche se ti sfida puntandoti il fucile. Il sombrero di Ardiles, la rovesciata di Pelè e il rigore parato da Stallone trascinano noi e la storia verso una vittoria che porterà la libertà. Perché il cinema tra la storia e la leggenda è più a suo agio con la seconda. E perché anche un ufficiale nazista può essere trascinato dal buon football, ma deve avere il mitico volto di Max Von Sydow.
Da vedere tutti abbracciati urlando “Victoire! Victoire!”. Terminato il film spegnere distribuire cinque alti a tutti.Siamo brutte, negre e povere, ma cosa ci manca per essere felici?
Il colore viola
[tit. orig. The Color Purple] di Steven Spielberg, 1985. con Whoopi Goldberg, Danny Glover
“Io sono povera, sono negra, sono anche brutta, ma buon Dio sono viva!”Il lieto fine nella storia di Celie Harris sembra impossibile e irraggiungibile, tante sono le disgrazie, le brutture, la cattiveria che la protagonista incrocia, attraversa e vive. Tratto da un bellissimo romanzo di
Alice Walker premiato con il Pulitzer, il film di Spielberg (con la perfetta ricostruzione di ambienti e atmosfere che sono proprie al registra) racconta la vita terribile di una ragazza afroamericana nel Sud degli
Stati Uniti dal 1908 al 1937, tra abusi familiari e sessuali, razzismo, prevaricazione, pregiudizio e brutalità. La sua vita è ed è sempre stata talmente orrenda che il bene le è impossibile da pensare e il male non le sembra poi così male, perché per lei è la normalità. Incredibilmente, le cose cambieranno, Celie imparerà a distinguere, capirà la propria forza, infine persino si ribellerà e ritroverà ciò che più ha amato e credeva perduto per sempre.
Da vedere nell’attesa di una lettera che con molta probabilità non arriverà mai (siate pratici, non si crede al lieto fine).
Con po' di plutonio la Delorean a 88 miglia all'ora sprigiona 1,21 gigowatt. A quel punto il flusso canalizzatore ...
Ritorno al futuro
[tit. orig. "Back to the future"] di Robert Zemeckis, 1985. Con Michael J. Fox, Christopher Llloyd
Hill Valley è una cittadina come altre mille nell’America degli anni ottanta. Bulli, pupe, famiglie sfigate (un po’ di anni dopo le avremmo definite “disfunzionali”), skateboard e piumini senza maniche. L’America che ripete se stessa offre prospettive limitate. Ma, ragazzi, siamo negli anni ottanta, gli anni dell’ottimismo obbligatorio, gli anni in cui tutto è possibile. E se hai un amico scienziato (un indimenticabile Christopher Llloyd) che scopre il flusso canalizzatore per viaggiare nel tempo e lo installa su una meravigliosa DeLorean allora puoi prendere in mano il tuo destino e trasformarlo come ti piace, certo dovrai darti da fare perché il sogno americano mica te lo regalano, te lo devi conquistare.Grazie all’invenzione dell’amico Doc il giovane Marty McFly (Michael J. Fox, un simbolo degli anni ottanta, in un ruolo che gli sta come un guanto) torna indietro negli anni cinquanta (altro periodo in cui tutto era possibile) e tra mille equivoci, roccambolesche avventure, baci, pugni e assoli di chitarra riesce a trasformare il padre sfigato e la madre abbrutita in una felice famiglia americana. Certo qui il sogno americano più che all’epica di John Wayne, alle epopee di
John Steinbeck o alle ballate e fughe di
Bruce Springsteen assomiglia di più a
“Se potessi avere mille lire al mese, senza esagerare sarei certo di trovare tutta la felicità … una casettina in periferia, una mogliettina giovane e carina tale e quale come te”, ma
“Ritorno al futuro” è quanto di più divertente si possa vedere al cinema ed alla fine siamo orgogliosi che i McFly possano vivere finalmente felici e contenti.
Da vedere indossando un giubbotto senza maniche e un paio di Timberland nei piedi. Abbracciati ad una ragazza coi capelli cotonati.
Il mio vicino Totoro
Che festa con Totoro
[tit. orig. Tonari no Totoro] di Hayao Miyazaki, 1988
“Proviamo a ridere tutti, così metteremo in fuga gli spauracchi.”Totoro è una creatura fantastica, anzi sono tre: un Totoro piccolo, uno medio ed uno enorme. Poi ci sono un incredibile autobus che è un grande gatto e anche i ‘nerini del buio’, creature che sono come piccoli
fantasmi di fuliggine che si nascondono e scompaiono con la luce. A parte questo e il tocco magico di Ayao Miyazaki tutto il resto è realissimo.
La scena alla fermata dell'autobus con Totoro è una delle più belle della storia del cinemaC’è un padre che trasloca in una casa ai bordi di un bosco con le due figliolette. La madre è all’ospedale malata. Ci sono due sorelle che litigano, si vogliono bene e si inventano e vivono avventure come solo i bambini sanno fare. C’è una nonnina che da’ una mano. C’è la solidarietà dei contadini nel Giappone del dopoguerra.L’energia e la volontà delle piccole protagoniste e del loro padre ci fanno ricordano che la vita è bella anche se non è facile, ma per renderla fantastica bisogna metterci un po’ di fantasia e di magia, altrimenti Totoro non potremmo vederlo e il magnifico volo finale sull’autobus gatto non sarebbe possibile.
Da fare vedere ad un amico un po’ triste, abbracciandolo, e mostrandogli il sorriso più enorme che abbia mai visto
Pane e tulipani
di Silvio Soldini, 1999. Con Licia Maglietta, Bruno Ganz, Giuseppe Battiston, Marina Massironi, Antonio Catania
“Intenderei calare negli Abruzzi e ricondurre qui Rosalba.”Non dimenticate mai che ridere, ballare, guardarsi negli occhi ... sono cose meraviglioseFacciamo che siete una casalinga pescarese, moglie di un marito egoista, insensibile (pure adultero, ma è il minore dei mali), madre di due figli concentrati sui loro problemi di figli: insomma, una donna normale, che sopporta la quotidianità, vive per gli altri e si interroga meno che può. Una donna ormai così invisibile che il marito (e l’intero bus di gitanti) la dimentica in un autogrill. Facciamo che lì per lì, invece di aspettare nell’autogrill, vi venga voglia di andare a
Venezia. Poi di rimanerci. Poi di fare cose che vi piacciono, tipo trovare un lavoro che vi fa contenti, suonare la fisarmonica, avere un’amica, ballare. Facciamo che questa seconda vita vi riesca veramente bene e siate felici. Vabbè, ma prima o poi deve finire, siamo realistici: ci sono i figli ad aspettarvi a Pescara, vostro marito vi mette un investigatore alle calcagna, i rimorsi vi incalzano e tornate indietro. Dovrebbe finire così: è stato un bell’intermezzo da ricordare malinconicamente. Invece no, il lieto fine incombe e con Soldini è leggero e naturale, la retorica svanisce in un sorriso spontaneo, tra arredamenti d’antan e musiche di
Don Backy. Il vostro romantico e attempato innamorato si procura un mezzo e viene a riprendervi fino a Pescara. Tornerete a suonare tanghi e accarezzare fiori. Credeteci.
Da vedere sui gradini di un autogrill in cui nessuno vi ha dimenticato e qualcuno potrebbe finalmente accorgersi di voi.
Un ragazzo
[Tit. orig. About a Boy] di Paul e Chris Weitz, 2002. Con Hugh Grant, Toni Collette, Rachel Weisz
"Se condividiamo questo saremo tutti più felici." "Ma è un ragazzino! sfigato per giunta!" "Appunto!"
“Ogni uomo è un’isola, e rimango di questa opinione. Però, chiaramente, alcuni uomini fanno parte di un arcipelago di isole. E sotto l’oceano in effetti le isole sono collegate.”Se c’è Hugh Grant, c’è il lieto fine. In effetti, è abbastanza così. Qui si tratta di un lieto fine edificante – nella vita isolarsi fa schifo, si è felici solo nella condivisione, soltanto se si vuole bene a qualcuno veramente e ci si impegna per lui, si è disposti per lui a cambiare e mettersi in gioco e blablablà – e che celebra la gioia dell’appartenenza a una famiglia di non consanguinei, scelti per affetto (molto, molto moderno). Dietro questo lieto fine c’è la storia del cialtrone Will (Hugh Grant) e del ragazzo Marcus (Nicholas Hoult), un caso umano di sfiga e tristezza. Il cialtrone, che vive di rendita per meriti non suoi, si gode la vita, ha relazioni sessuali brevi e disimpegnate (e per questi motivi come non invidiarlo?) cambierà la propria vita per/grazie allo sfigato? E lo sfigato sarà felice e un po’ fiero di se stesso e della propria vita? Sì, certo, e in modo intelligente e divertente, come nell’omonimo romanzo di
Nick Hornby da cui è tratto.
Da vedere mentre componete un orecchiabile motivetto da cui trarre royalties per i prossimi secoli.
L’arte di vincere
[tit. orig. Moneyball] di Bennett Miller, 2011. Con Brad Pitt, Jonah Hill, Robin Wright, Philip Seymour Hoffman.
“Se vinciamo con questa squadra, cambieremo per sempre questo sport.”Non sono pazzo, ce la possiamo fare davveroNello sport il lieto fine è certo, almeno per un contendente (perciò lo sport piace ai maschi: qualcuno vince e qualcuno perde, è il paese delle sicurezze). Di solito nei film sportivi il contendente sfavorito, debole, povero, azzoppato e vilipeso, alla fine vince: c’è sempre un tizio basso che va a canestro, uno coi piedi a banana che infila un bel cross, un ex ciccione che brucia tutti nella corsa. In questo film il ciccione c’è ma non gioca, gli basta occuparsi di
sabermetrics, cioè analisi del baseball attraverso le statistiche (dall’acronimo SABR,
Society for American Baseball Research). L’ingegnoso ciccione Peter Brand incontra il nostro perdente- eroe Billy Beane (un assioma della retorica hollywoodiana è che in ogni perdente c’è un eroe su cui con un film fai i miliardi, specie se lo interpreta Brad Pitt), general manager degli
Oakland Athletics, squadra di baseball in disarmo, da cui i migliori giocatori stanno scappando a gambe levate in cerca di ingaggi più sostanziosi. Per risollevare la squadra, i due inaugurano un diverso metodo di valutazione dei giocatori, e costruiscono una squadra di
losers a basso costo di ingaggio, che riesce a ottenere risultati clamorosi. Magari non vince sempre, ma il metodo funziona. La squadra si riprende, all’eroe ex perdente viene offerto un contratto per i
Boston Red Sox, che lui rifiuta (è un eroe, mica scherza). Lieto fine da manuale: vincono il coraggio e l’intraprendenza, il merito è premiato. Il bello è che questa storia è in gran parte vera.
Da vedere in prima base.