Ogni qual volta si parla di lobby o di lobbisti, il primo pensiero va naturalmente agli USA. Negli Stati Uniti, come sappiamo, le lobby e l’azione di lobby sono legalizzate e alla luce del sole, alla fine di ogni campagna elettorale i contributi ricevuti da ogni candidato vengono resi di pubblico dominio, fin dal 1946 quando venne approvato il Federal Regulation of Lobbying Act. La legge, modificata più di una volta con il passare degli anni, prevedeva un apposito albo obbligatorio per chiunque volesse influire sul processo legislativo, registrandosi presso le Camere, indicando gli interessi tutelati e rendicontando ufficialmente la propria attività. Il tutto naturalmente con annesse sanzioni in caso di violazione delle regole.
Ormai però, nell’economia globalizzata e in particolare all’interno dell’UE, le lobby che si concentrano sul Parlamenti nazionali sono quelle che limitano il loro interesse al mercato interno di quella determinata nazione. Le grandi multinazionali e le grandi banche concentrano le loro attività di lobby a Bruxelles.
Nell’UE il crescente aumento delle competenze delle istituzioni comunitarie ha contribuito ad un vero e proprio boom dell’attività lobbistica, che stima oggi circa 15.000 addetti ai lavori. Nel 2007, nel contesto dell’iniziativa europea per la trasparenza, la Commissione ha istituito un registro dei rappresentanti di interessi, seguito da un’iniziativa simile del Parlamento Europeo nel 2011, al fine di permettere ai cittadini di conoscere quali interessi generali o specifici si adoperano per influire sul processo decisionale delle Istituzioni europee e quali risorse vengono utilizzate per perseguire tale fine. Si tratta di un registro volontario che non prevede alcuna procedura formale, né regola amministrativa per l’accreditamento dei rappresentanti di interessi alla Commissione europea. Il sistema di autoregolamentazione non ha sortito gli effetti sperati. Solo un ristretto numero risulta iscritto. Questo significa semplicemente che una larga parte del lobbying di Bruxelles rimane nell’ombra.
Inoltre, con l’acuirsi della crisi dell’eurozona, che ha messo su molti versanti gli Stati membri in concorrenza gli uni con gli altri, si è venuta a creare un’altra forma di lobby, che ha reso le più alte cariche nazionali, non portatrici degli interessi nazionali del proprio Paese all’interno della cornice UE, come normale che sia, ma rappresentanti degli interessi particolari delle maggiori aziende nazionali.
Un perfetto caso di questa nuova forma di lobby ci si presenta proprio in questi giorni.
Tutta la vicenda inizia nell’estate di quest’anno, precisamente il 24 giugno, quando il Presidente della Commissione ambientale europea Matthias Groote, membro del partito Socialdemocratico tedesco, riesce a strappare un accordo con Parlamento e Commissione europea, a protezione dell’ambiente e limitando le emissioni di anidride carbonica delle automobili. Il progetto, in particolare, prevede che entro il 2020 le nuove auto non dovranno emettere più di 95 grammi di CO2 per km, o consumare più di 4.1 litri di benzina oppure 3.6 litri di diesel ogni 100 km. Questa norma, che a prima vista ad alcuni può risultare liberticida, non dovrà comunque riguardare ogni auto. Infatti, se un gruppo costruisce auto che hanno emissioni maggiori, può bilanciare le emissioni con auto che restano sotto questa soglia. Alla fine conta la media di tutti i veicoli che il gruppo costruisce. All’interno dell’accordo stesso, la Germania riesce a strappare alcuni eccezioni e regole speciali: i produttori di auto con grossa cilindrata, tipo BMW o Daimler, potranno raggiungere i 101 grammi per Km, mentre i produttori di berline, come la FIAT, solo 89 grammi; inoltre, le case automobilistiche che costruiscono auto ecologicamente sostenibili, come le auto elettriche, potranno usufruire di bonus. Insomma l’accordo non è l’ideale ma le parti sono tutte soddisfatte del compromesso raggiunto, ora manca solo il voto del consiglio che per accordi del genere viene considerato una formalità burocratica.
Quindi tutto risolto? L’azione di lobby ha garantito eccezioni per gli interessi delle grosse aziende e si è arrivati ad un accordo?
No, in realtà l’azione di lobby inizia adesso. Nei giorni che seguono l’accordo il provvedimento scompare dall’ordine del giorno della Commissione. Gli interessi in gioco hanno mosso le loro pedine.
Come dettagliatamente riporta un’inchiesta pubblicata dal Die Zeit: “Subito dopo l’uscita di Groote dalla riunione fiume di quel lunedì, i primi lobbisti sono arrivati a Berlino. I manager di Daimler e BMW sono particolarmente decisi. Sanno che per far raggiungere i limiti fissati alle auto prodotte nelle loro catene di montaggio servirà molto lavoro. BMW già da tempo vorrebbe darsi l’immagine di una casa automobilistica amica dell’ambiente. Se ci fossero delle sanzioni per gli eccessivi livelli di anidride carbonica “per il numero uno di BMW Norbert Reithofer sarebbe un disastro in termini di immagine”, dice un lobbista dell’auto.”
A tirare le fila di quest’azione di lobby è l’ex ministro dei trasporti Matthias Wissmann (CDU), attuale presidente della VDA, l’associazione dei produttori di auto tedeschi. Profondamente inserito nella rete di potere politico-industriale tedesca, Wissmann collega immediatamente tutti i suoi contatti più influenti: dal Commissario all’energia Günther Oettinger, al leader socialdemocratico al Bundestag, Frank-Walter Steinmeier, al leader della IG-Metall (sindacato industriale metallurgici) Berthold Huber fino presidente del Land Baviera Horst Seehofer. Tutti mobilitati per raggiungere l’obbiettivo, arrivare fino in cima, alla Cancelliera Angela Merkel che riprende in mano il dossier:“Il compromesso di Bruxelles ora è una questione da gestire ai vertici, e Merkel diverrà il lobbista più importante dell’industria automobilistica tedesca. I diplomatici di diversi stati membri confermano che la Cancelliera e il suo staff nei giorni seguenti hanno contattato molti dei 26 capi di governo europei. Alcuni sono stati chiamati personalmente da Merkel, nel tentativo di collegare i negoziati sulle emissioni di CO2 con quelli sul budget europeo. Il premier britannico David Cameron, così racconta un diplomatico, ha appoggiato la richiesta di Merkel di un rinvio della decisione sulla CO2, in cambio di un appoggio tedesco al controverso sconto per i britannici sui contributi verso la UE.”
La crisi occupazionale che attanaglia alcuni Paesi Europei viene usata come arma di persuasione sia dal governo tedesco che dai gruppi automobilistici in quei Paesi dove hanno aperto stabilimenti: “Il Portogallo nel pieno di una profonda recessione è stato messo sotto ricatto dal governo federale. VW produce le proprie auto anche in quel paese”, dice l’eurodeputato dei Verdi Rebecca Harms. Anche l’Olanda, da sempre pioniere nella difesa ambientale, si deve piegare. BMW ha recentemente acquistato uno stabilimento nel paese. I rappresentanti del governo tedesco si sono soffermati anche su questo punto.”
Le inversioni di posizione dei Paesi citati sono degne delle montagne russe. Il settimanale tedesco raccoglie i protocolli che hanno preceduto questa inversione e documenta come le posizioni siano cambiate repentinamente: “Nel protocollo dell’8 maggio si dice: “Anche il Portogallo intende appoggiare le dure richieste del Consiglio, e non quelle meno severe della Commissione”. Ma in seguito alla pressione di Berlino la posizione è cambiata di 180 gradi. Come ha fatto la Gran Bretagna, che sempre secondo il protocollo inizialmente non mostrava “un grande interesse” per la posizione tedesca. Lo stesso vale per i Paesi Bassi.”
Il resto della storia è cronaca di pochi giorni fa, con l’accusa alla Cancelliera Merkel di aver ricevuto circa 700.000 € da finanziatori provenienti dai colossi automobilistici tedeschi per la sua campagna elettorale, giusto pochi giorni prima del blocco dell’iter del provvedimento europeo. Se da un lato possiamo capire quanto la Merkel dia importanza all’industria di automobili tedesca che in Germania occupa direttamente 750.000 persone e attraverso l’indotto svariate milioni, dall’altro ci viene naturale chiederci se i provvedimenti concordati fossero così deleteri per le case automobilistiche: “Assolutamente no”, dice Axel Friedrich, ex esperto automobilistico dell’associazione per la protezione ambientale tedesca e ora consulente internazionale in tema di regolamenti sulla CO2. La lobby automobilistica tedesca ha una certa esperienza nel mettere in guardia dalla deindustrializzazione del paese che si avrebbe se nuove regole ambientali fossero introdotte. E’ successa la stessa cosa durante le negoziazioni per l’applicazione dei limiti alle emissioni di CO2 da applicare entro il 2015. Alla fine i produttori tedeschi ne hanno beneficiato – perché le regole hanno spinto verso l’innovazione. Sono stati creati addirittura posti di lavoro, dice Friedrich, e tutti i gruppi automobilistici hanno raggiunto gli obiettivi in anticipo rispetto al 2015.”
Le domande da porci a questo punto sono svariate, dove sono arrivate le manovre di lobby all’interno dell’UE? Fino a che punto gli Stati in crisi dell’eurozona sono nelle mani delle multinazionali che li ricattano attraverso i propri capi di governo in caso di provvedimenti a loro sfavorevoli? Quale valore hanno i negoziati e gli accordi europei tra i vari Stati se poi questi non vengono rispettati o bloccati? Che ruolo svolgono i maggiori rappresentanti degli Stati membri? Sono i rappresentanti dei popoli, che cercano la maggior cooperazione per affrontare gli ostacoli comunitari, oppure s’identificano nelle parole di Guido Westerwelle, Ministro degli Esteri tedesco, durante la conferenza annuale dei diplomatici tedeschi tenutasi presso il Ministero degli Esteri: “ci consideriamo dei fornitori di servizi per le imprese tedesche”.