Era il simbolo dell’unità nazionale, il riconoscimento di un’identità sempre più difficile da definire e da oggi, di fatto non esiste più. Il petrolio, in Messico, non sarà più una questione di Stato: Enrique Peña Nieto apre alla concorrenza e Pemex, l’industria nazionale degli idrocarburi, dovrà entrare in questa logica di mercato.
Al termine di un dibattito durato venti ore, il Congresso messicano ha deciso di modificare gli articoli 25, 27 e 28 della Costituzione, una modifica che permetterà ora la partecipazione del capitale privato nell’area degli idrocarburi. Proprietà e controllo rimarranno messicani, mentre i rappresentanti dei sindacati (attualmente cinque) saranno fuori dal consiglio d’amministrazione dalla Pemex. Il passo dato da Peña Nieto è notevole e marca una profonda trasformazione in un settore che fonde storia e società.
Per i messicani, appunto, il petrolio era simbolo di identità. Un simbolo che, ormai, aveva perso brillo nella deriva generalizzata che caratterizza le istituzioni pubbliche di mezzo mondo. La Pemex non ne è certo eccezione, ma manteneva comunque una certa eco di quei fatti che nel 1938 avevano decretato la nazionalizzazione del prodotto principale dell’econonia messicana. Fino ad allora le multinazionali del petrolio avevano fatto il bello e cattivo tempo, non solo all’interno degli sterminati giacimenti di Tampico o Veracruz, ma in termini di decisioni politiche ed economiche. Abusi e sfruttamento erano all’ordine del giorno, i governi dovevano sottostare alle prevaricazioni delle marche straniere e le proteste dei sindacati rimanevano vane.A cambiare le cose fu un presidente anomalo, Lázaro Cárdenas, che riuscì a mettere d’accordo praticamente tutte le forze politiche e sociali, nonché la Chiesa cattolica, e a buttare fuori dal paese le multinazionali del petrolio. Il Messico rischiò l’invasione dei suoi giacimenti da parte degli Stati Uniti, ma poi lo scoppio della Seconda guerra mondiale spostò l’interesse delle grandi nazioni sugli scacchieri dell’Europa e del Pacifico. Ciò non tolse agli Alleati di mantenere fino al 1941 l’embargo contro il Messico, che per vendere il suo petrolio dovette in quegli anni rivolgersi alla Germania nazista e all’Italia di Mussolini. Un amaro paradosso per il Messico, che aveva accolto negli anni anteriori migliaia di esuli antifascisti spagnoli.
Ristabilite le relazioni con Stati Uniti e Gran Bretagna, Petromex (come si chiamava allora la Pemex) divenne il motore della crescita del Messico moderno, emblema praticamente intoccabile che aveva resistito anche alla stagione delle grandi vendite di enti pubblici della presidenza Salinas de Gortari. Per Peña Nieto ed i suoi è ora giunta l’ora di voltare pagina. L’offerta arriva in un momento in cui l’industria degli idrocarburi messicana è appetibile: solo nell’ottobre dell’anno scorso Pemex ha trovato due grandi giacimenti nel golfo del Messico che, da soli permetteranno riserve per i prossimi trenta anni. Una dichiarazione esplicita di redditività che ha attirato l’interesse dei principali operatori del settore, ma che dimostra anche l’inconsistenza di un’azienda pubblica capace di sperperare miliardi negli ultimi dieci anni. Il passivo di Pemex è oggi tale da rappresentare il 58% del debito interno del Messico.
Con questa riforma, la sesta in un anno di presidenza, Peña Nieto ha cambiato radicalmente il quadro giuridico messicano. Educazione, telecomunicazioni e tributi avevano già subito lo spirito riformista del presidente, uno spirito sottoscritto anche dall’opposizione che ora si sente tradita e beffata. Il Pacto por México si è rivelato infine un escamotage politico con cui il Partido Revolucionario ha ripreso il controllo delle operazioni senza colpo ferire. In nome della modernità, assicura Peña Nieto.