Messico: una potenza emergente sull’orlo del collasso

Creato il 23 agosto 2012 da Bloglobal @bloglobal_opi

di Giuseppe Dentice

Il Messico, come molti Paesi dell’America Latina, vive oggi un profondo processo di rinnovamento politico, economico e sociale ma, più degli altri, rappresenta al meglio le aspirazioni e le contraddizioni dell’ondata latina nel mondo. Emblema di questa incoerenza è la classifica degli uomini più ricchi al mondo stilata annualmente dalla rivista statunitense “Forbes”: per il terzo anno consecutivo l’uomo più ricco al mondo è il magnate delle telecomunicazioni, il messicano di origini libanesi, Carlos Slim Helù. Sempre nella medesima classifica compare anche Joaquín Guzmàn Loera, detto “El Chapo” (Il Corto), uno degli uomini più ricercati al mondo, criminale e leader del cartello della droga di Sinaloa, responsabile del 25% della droga illegale trafficata dal Messico negli Stati Uniti. Così, se da un lato, il Messico mostra grande dinamismo e alti tassi di sviluppo economico, dall’altro lato, esibisce enormi sacche di povertà e diseguaglianze sociali, dovute anche alla criminalità e al narcotraffico. Sebbene il governo messicano abbia adottato misure drastiche e molto dure contro i cartelli, il fenomeno criminale non pare essere ancora giunto ai definitivi titoli di coda.

Profilo socio-economico interno

Il Messico è una delle più importanti realtà al mondo. E’ considerata la 14esima economia mondiale, fa parte del gruppo delle 5 principali economie emergenti (TIMBIs), è membro del G-20 (di cui ha ospitato l’ultimo vertice di luglio a Los Cabos) e dell’OCSE. Infine, il Messico è la seconda economia dell’America Latina dopo il Brasile, è un importante membro dell’OPEC ed è considerato un partner economico di livello mondiale.

Nel corso del 2011, l’economia messicana ha continuato a mostrare una tendenza positiva, nonostante l’aumento dei prezzi delle materie prime e l’incidenza, ancora forte, della crisi economica globale che, nel 2009, ha fatto precipitare il PIL nazionale di 6,2 punti percentuali. L’attuale crisi economica, dovuta alla forte incidenza della riduzione delle esportazioni verso gli Stati Uniti – quasi il 90% di queste finiscono oltre il confine americano –, non ha fermato però la crescita del PIL che, secondo i dati del FMI, continuerà a crescere anche nei prossimi anni ad una media 3-4 punti percentuali (nel 2011 ha toccato il 4,4%, con un fatturato di 1,16 trillioni di dollari).

Sebbene il peso e l’importanza dell’economia messicana sia notevole, il Paese racchiude notevoli problemi di instabilità, povertà e diseguaglianza sociale. Secondo l’OCSE, il Messico raggiunge il secondo posto nella poco invidiabile classifica dell’ineguaglianza sociale tra i Paesi membri dell’organizzazione stessa. Inoltre, le ultime statistiche del FMI segnalano che circa il 50% della popolazione vive in condizioni di estremo disagio, mentre il 14,9% vive al di sotto della soglia di povertà di due dollari giornalieri stabiliti dalla Banca Mondiale. Infine, secondo i dati CIA World Factbook, sia il debito pubblico (dal 36,9% del 2010 al 37,5% del 2011), sia il debito estero (da 196 milioni di dollari nel 2010 a 204 nel 2011) sono in costante aumento.

Tali problemi sarebbero dovuti sia ad un fattore geografico, in quanto mancano le infrastrutture per collegare adeguatamente l’impervio e montagnoso territorio messicano da Nord a Sud, sia a carenze di tipo strutturale-economico, poiché la ricchezza di questo Paese si basa quasi unicamente sulle esportazioni e sul turismo. Anche i fattori legati alla corruzione e alla violenza incidono negativamente nella scelta degli investitori stranieri di non impegnarsi con attività industriali nel Paese centro-americano. In particolare, il problema del narcotraffico ha raggiunto proporzioni tali da essere considerato dal governo un problema per la sicurezza nazionale.

Il narcotraffico: un problema di sicurezza nazionale

Storicamente il fenomeno del narcotraffico cominciò ad apparire nel Messico durante il boom economico degli anni ’60 e ’70. Grazie alle risorse generate dall’industria petrolifera, alla crescita economica costante e alla stabilità politica garantita dal Partido Revolucionario Institucional (PRI) – per 70 anni alla guida del Paese come forza di governo egemonica –, in Messico si stabilì una certa legge non scritta secondo la quale il potere politico vietava al crimine organizzato la partecipazione nella gestione diretta dell’attività dello Stato, proibendo, inoltre, l’introduzione massiccia di droghe nel mercato interno ma tollerandone, invece, l’esportazione.

Dagli anni ’80 la storia della droga in Messico conobbe una prima svolta: i boss colombiani, che controllavano il business mondiale dei narcotici, si servirono dei corrieri messicani per trasportare la cocaina verso gli Stati Uniti e l’Europa. Sempre in quegli anni (nel 1989), viene arrestato il primo grande boss del narco messicano, Miguel Ángel Félix Gallardo, fondatore del Cartello di Guadalajara, che gestiva il traffico di cocaina nel Paese. Il secondo salto di qualità avvenne negli anni ’90, quando dopo l’arresto di Gallardo, in Messico si ebbe una sorta di tregua tra cartelli della droga e politica, mentre fuori dal Paese il peso e il ruolo dei grandi cartelli colombiani di Calì e Medellìn iniziava a scemare a favore dei boss messicani che assunsero la gestione diretta del traffico, decidendone prezzo, rotte, destinazioni e trasporto.

Dagli inizi del 2000, i cartelli del narcotraffico hanno iniziato a rompere quella sorta di legge non scritta tra Stato e criminalità, così che le varie bande hanno cominciato a fronteggiarsi in faide sanguinosissime per controllare interi territori e per infiltrarsi nelle istituzioni. Anche le violenze contro i civili sono aumentate esponenzialmente e, così, si è giunti alla terza e definitiva fase del narco messicano. Con le presidenze di Vicente Fox e, soprattutto, di Felipe Caldéron del Partido Acción Nacional (PAN) – il partito conservatore al potere negli ultimi dodici anni – la guerra al narcotraffico è diventata un obiettivo prioritario di sicurezza nazionale. Fox, nel 2005, ha inviato un piccolo numero di truppe a Nuevo Laredo e nel Tamaulipas, ai confini con gli Stati Uniti, nel tentativo di contrastare le bande criminali della zona, ma i risultati sono stati modesti. La vera lotta senza quartiere è arrivata solo con Caldéron, il quale nel dicembre del 2006 decise di inviare l’esercito per combattere i trafficanti di droga. Da una parte lo Stato, con polizia locale, federale, marina ed esercito; dall’altra i cartelli della droga: Sinaloa, il Golfo, gli Zetas, Tijuana, Juárez, La Familia, i Templarios, i Beltrán Leyva, il Pacifico, la Federación, la Mano con Ojos e altri ancora.

Gli effetti della “guerra messicana alla droga”

All’origine delle violenze tra governo federale e cartelli criminali ci sono i ricavi miliardari derivanti dal traffico di cocaina proveniente dalla Colombia e diretta verso gli Stati Uniti. Recentemente, il Dipartimento di Giustizia USA ha stimato che i guadagni derivanti dalla vendite di droga all’ingrosso si aggirano annualmente tra i 13,6 miliardi e i 48,4 miliardi di dollari.

Nella “guerra messicana alla droga” – questo il nome affibbiato da diversi media e think tank d’oltre confine – il governo Caldéron ha impiegato circa 36.000 soldati, dispiegati soprattutto nel Nord e lungo tutto il confine con gli Stati Uniti, provocando oltre 70.000 vittime – anche se le stime ufficiali parlano di 60.000 accertate tra civili, militari e narcos – di cui 16.466 nel solo 2011 ed oltre 10.000 dispersi. Nonostante il vortice di violenze, il primo semestre del 2012 ha fatto segnare per la prima volta dal 2006 un calo del 7% degli omicidi ed, in generale, una diminuzione del 17% delle violenze. Ma la notizia, anche se in controtendenza, non deve illudere sul reale potenziale delle organizzazioni criminali messicane. I cartelli come Sinaloa o gli Zetas, al momento i più potenti nel Paese, possono contare su formazioni paramilitari create ad hoc per combattere non solo i componenti delle bande rivali, ma anche e soprattutto le forze di polizia e l’esercito. Così per tamponare la forza dei cartelli e per smantellare la rete di contatti tra istituzioni e militari corrotti al servizio dei boss, il governo ha approvato recentemente una riforma dei corpi di polizia, aumentando lo stipendio ai poliziotti e creando un’agenzia federale unica, sullo stile della FBI, per rendere duratura ed efficace l’azione di contrasto ai narcos.

Paradossalmente, ad una maggiore democratizzazione nel Paese è corrisposto un avanzamento del fenomeno criminale. Infatti, l’alternanza nel potere politico dell’ultimo ventennio e la crescente democratizzazione delle istituzioni a livello nazionale e regionale hanno condotto, da un lato, alla rottura delle precedenti reti fiduciarie tra politica e narcos, e, dall’altro, ad una maggiore infiltrazione del crimine organizzato nella gestione della cosa pubblica e ad una corruzione sistematica di politici ed apparati dello Stato, tanto a livello locale quanto a livello federale.

Così la scelta di Calderón di inviare l’esercito pare giustificarsi alla luce del fatto che l’intento principale dello Stato fosse quello di riaffermare la propria presenza sul territorio. L’escalation militare della lotta ai narcos non ha però minimamente portato i risultati sperati e, nonostante il governo federale continui a lanciare messaggi rassicuranti, l’uso così pressante della forza ha anche attirato numerose critiche di ONG internazionali (in particolare Human Rights Watch e Amnesty International) di violazione dei diritti umani. Ma critiche sono giunte anche dagli Stati Uniti. Il Dipartimento di Giustizia statunitense, la DEA (Drug Enforcement Administration) e la FBI hanno spesso criticato le autorità messicane per l’uso sproporzionato della forza e per la loro incapacità nel non aver risolto i veri nodi della situazione, ossia la tracciabilità/riciclaggio del denaro sporco e l’uso di armi di contrabbando dagli Stati Uniti.

La special relation con gli USA

Nonostante negli ultimi anni le relazioni bilaterali abbiamo incontrato un certo rallentamento a causa dei numerosi incidenti di frontiera, la special relation tra USA e Messico rimane fortissima e storicamente intrecciata in più aspetti della vita dei Paesi (economia, politica, demografia, geografia, immigrazione, etc..). Sebbene negli anni l’integrazione economica abbia svolto il ruolo di asset principale nei rapporti bilaterali, i temi cardine come il narcotraffico e l’immigrazione clandestina sono rimasti tabù che ancora incontrano notevoli difficoltà nella loro risoluzione.

In particolare, il problema della droga non affligge più soltanto il Messico, ma inizia a segnare anche le vite dei cittadini del vicino statunitense. Il Messico è attualmente il principale produttore ed esportatore di stupefacenti sul suolo americano – l’80% della cocaina giunta negli USA arriva direttamente da oltre confine – ed è compratore privilegiato di armi di fabbricazione statunitense – circa il 90% di queste giungono di contrabbando dai laboratori di confine del Texas e della California. Se a questi problemi si aggiunge anche il fatto che la violenza dei cartelli ha varcato il confine messicano, allora per gli Stati Uniti e i vicini centro-americani il fenomeno è davvero importante e di difficile soluzione. Infatti, i narcos messicani hanno iniziato a colpire in Guatemala e negli Stati Uniti. Soprattutto negli States, il fenomeno inizia ad assumere numeri importanti. Come testimonia il Report del Dipartimento di Giustizia statunitense del 2011, i cartelli della droga hanno una fortissima presenza in oltre 1.000 città USA, in particolare nelle metropoli di Los Angeles e Dallas, zone di confine e, dunque, facili prede dei narcos a causa della forte immigrazione latina negli Stati meridionali statunitensi.

Il Messico non rappresenta per Washington solo una questione di mera sicurezza dei propri confini, ma esso diviene un’importante fonte di ricchezza e benessere per l’economia statunitense. Il Messico, grazie alla firma degli oltre 40 accordi di libero scambio, è una delle economie più aperte al mondo ed è una piattaforma di esportazione ideale per accedere a due terzi del PIL mondiale. Il Paese centro-americano è membro autorevole del NAFTA (North American Free Trade Agreement), il maggiore blocco economico al mondo con un mercato da 17,3 trilioni di dollari, di cui gli Stati Uniti sono il perno principale e nel quale hanno reso indissolubile il proprio rapporto commerciale con il vicino messicano. Inoltre, le esportazioni messicane verso gli USA pesano sul PIL del Paese latino per oltre 25 miliardi di dollari l’anno (circa 1/3 del PIL). Il legame con il Messico è reso inscindibile anche per via della forte immigrazione negli States: un sesto della popolazione USA ha origini messicane, quasi un quinto della forza lavoro messicana lavora su suolo statunitense e circa mezzo milione di pensionati yankee risiedono in Messico.

Quindi, come il Messico è un partner strategico e commerciale cruciale per gli USA, così Washington resta il punto di riferimento con il quale il Paese centro-americano si troverà a discutere le sue numerose priorità politiche.

Lotta al narcotraffico: “Iniciativa Mérida” e operazione “Fast and Furious

Le uccisioni eccellenti di un agente dell’immigrazione USA, di un’impiegata del Consolato degli Stati Uniti e del marito e di un agente della FBI in Messico, hanno spinto Washington ad affrontare la questione di petto. La paura che una possibile escalation delle violenze possa trasferirsi dal Messico sul suolo statunitense ha convinto le autorità yankees ad intraprendere una dura lotta al narcotraffico, appoggiando direttamente le iniziative del governo di Città del Messico sul proprio territorio.

Tra queste la più importante è il piano bilaterale antidroga noto come “Mérida Initiative o Plan Mexico”, un progetto di cooperazione sulla falsariga del “Plan Colombia”, stipulato nel 2007 tra il Messico e gli Stati Uniti con l’obiettivo di aumentare le azioni dei due governi contro il crimine organizzato transnazionale. L’impegno stipulato da George W. Bush con Caldéron prevedeva un esborso da parte degli Stati Uniti di 1,5 miliardi di dollari per tre anni per operazioni sul territorio e per il trasferimento di tecnologia, equipaggiamento e formazione verso il Messico. Il programma di aiuti prevedeva l’utilizzo di strumenti per fornire supporto logistico ed equipaggiamenti militari all’esercito messicano nella guerra contro i narcos e per migliorare le tecnologie di controllo al confine tra i due Paesi. Nonostante l’Iniciativa Mérida dovesse durare tre anni, il governo di Barack Obama ha procrastinato i termini della missione, stanziando anche per gli anni a seguire ulteriori risorse finanziarie e militari.

Anche se i risultati finora sono stati molto modesti, al momento sono da escludersi iniziative militari statunitensi per evitare un’intromissione nella sovranità territoriale messicana. Tuttavia l’esigenza di un’azione più decisa contro il narcotraffico ha creato le condizioni per un rafforzamento della cooperazione bilaterale, soprattutto, nelle attività di intelligence, garantendo, al contempo, un potere e un’influenza sempre maggiore degli USA nelle scelte di politica interna messicana. Emblema di tale situazione è l’operazione “Fast and Furious”. L’operazione, iniziata sotto l’Amministrazione Bush e portata a termine nell’ottobre del 2011 dall’establishment di Obama vedeva coinvolta la FBI in prima persona e prevedeva l’ingresso in Messico di armi da fuoco di grosso calibro, comprate in territorio statunitense e vendute ai cartelli messicani, con l’obiettivo di arrivare a colpire i vertici più importanti dei narcos in modo da smantellarne i canali di rifornimento. La controversa operazione non ha avuto successo a causa dell’impossibilità, o incapacità, della FBI nel rintracciare le armi. Piuttosto, “Fast and Fuorious” ha messo nei guai il Segretario alla Giustizia USA Eric Holder, il quale è stato deferito per oltraggio al Congresso – più precisamente al Committee on Oversight and Government Reform, il potente organo di controllo sulle attività del governo e dell’amministrazione in carica – per aver mentito sul fatto di non essere a conoscenza dell’operazione da egli stesso autorizzata.

Ma al di là dei successi o degli insuccessi, “Fast and Furious” è stata una dimostrazione di come sia accresciuta l’influenza statunitense rispetto alle scelte dei decision-makers messicani. Tale ingerenza nella sovranità messicana è stata giustificata dagli USA a causa della mancanza di volontà e/o dell’incapacità delle autorità latine nel contrastare i cartelli della droga sul territorio nazionale. Sebbene il sentimento nazionalista e di anti-americanismo sia comune a tutte le nazioni latine e numerose siano state le ondate di protesta da parte di tutto l’arco costituzionale messicano, il governo centro-americano ha cercato di abbassare immediatamente i toni e ha ammesso nitidamente come la lotta al narcotraffico non possa avvenire senza le risorse e il consenso di Washington.

Quali prospettive per l’asse USA-Messico?

Il problema del narcotraffico ha messo in evidenza tutte le falle nei rapporti tra gli attori in campo. Messico e Stati Uniti si trovano indissolubilmente legati da un medesimo destino nella lotta al fenomeno criminale, ma quello che li divide è il modo di affrontare il problema.

La strategia messicana sembra essere orientata a bloccare la diffusione dell’illegalità all’interno del territorio nazionale, “accettando” o “favorendo” piuttosto l’esportazione del fenomeno criminale verso l’esterno, tanto a Nord (Stati Uniti), quanto a Sud (Guatemala e Nicaragua in primis). La posizione americana, invece, sembra differente e orientata ad esigere un maggiore dispiegamento di forze dal governo messicano per reprimere il commercio illegale di droga nel tentativo di contenere il fenomeno lungo i confini del Rio Bravo. Al momento, però, nessuna delle due parti ha la forza sufficiente per contenere il fenomeno e, all’orizzonte, non sembrano esserci azioni significative in grado di cambiare l’attuale inerzia delle cose.

La gravità del fenomeno e le conseguenze ad esse collegato farebbero, dunque, propendere molti osservatori verso l’idea che il Messico non sia quella tanto pubblicizzata potenza emergente in grado di incidere nei futuri equilibri mondiali, ma, piuttosto, un grande castello di carta e sull’orlo del collasso interno.

* Giuseppe Dentice è Dottore in Scienze Internazionali (Università di Siena)


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