Anno: 2013
Durata: 92’
Distribuzione: Lucky red
Genere: musicale
Nazionalità: USA
Regia: Nimród Antal
Data di uscita: uscita evento 29 e 30 Ottobre 2013
In barba ai fratelli Coen, che fecero recitare a Jeff Drugo Lebowski Bridges/: “[…]sono stato in tournée con i Metallica…facevo il tecnico del suono…una manica di stronzi…[…]”, Metallica through the never si rivela assolutamente la conferma di quanto sia vero il contrario. Battute e sarcasmo d’autore a parte, il film evento in questione è qualcosa che finora non avevamo mai visto prima. Appassionati di metal e della band americana scendano in campo, haters pieni di pregiudizi e orizzonti limitati, fermi in panchina. Alla base, sia di chi ha ideato e realizzato il progetto che dell’ascoltatore/spettatore minimamente assiduo e preparato, c’è un amore vero e duraturo per la musica e per il cinema inteso come sensazioni. Sensazioni, in questo caso, guidate da una delle più belle colonne sonore che possiamo aver mai avuto il privilegio di apprezzare e riconoscere, ovvero la musica dei Metallica. Si tratta di un vero e proprio concerto della band, che esegue i suoi pezzi più celebri calcando un palcoscenico a dir poco spettacolare e super tecnologico (61 metri per 18), creato appositamente per il film, ricco di raggi laser, giochi pirotecnici, luci stroboscopiche e pavimento al LED, installazioni video/micro-film che proiettano e raccontano le storie che si celano dietro ogni canzone: la follia della pena di morte e dei sentimenti del condannato per Ride the Lightning, scene di guerra e angoscia per One, motori in fiamme per Fuel. Non un nome a caso, quindi, a occuparsi del design dello show, ma un certo Mark Fisher: suo The wall dei Pink Floyd. E non aggiungo altro! Fisher ha inoltre raccolto alcuni, significativi oggetti di scena presi da precedenti spettacoli dei Metallica, riproducendoli su scala gigantesca e riproponendoli con effetti speciali all’avanguardia: riconosciamo la fossa dei serpenti dal Black album tour, la statua di Doris – Lady Justice dal tour di …and justice for All, le bare da Death Magnetic e un’enorme sedia elettrica sospesa in aria che spara lampi e saette, generate da ben quattro trasformatori di Tesla, direttamente dalla copertina dell’album Ride the Lightning.
La regia viene affidata a Nimród Antal, regista statunitense di origine ungherese e vecchio fan dei Metallica (che in passato si era cimentato con pellicole perlopiù thriller e horror, Vacancy e Predators) che alterna vorticosamente le immagini del concerto a quello che avviene fuori dalla grande arena che, per quella sera, registra il sold out. Entra in scena Trip, che ha il volto del talentuoso attore Dane Dehaan, visto e apprezzato appieno in Chronicle, e interpreta il ruolo di uno dei tanti roadie che vengono ingaggiati nei grandi eventi e che deve essere flessibile verso qualsiasi tipo di incarico, anche il più scomodo, per riuscire a guadagnarsi la paga giornaliera. É un ragazzo molto giovane, ma già dal suo sguardo e dal suo atteggiamento si evince che non abbiamo a che fare con un figlio di papà. Egli sembra possedere quella giusta dose di sensibilità e aggressività che lo porta, a sua volta, a lavorare per la sua metal band del cuore. É un ragazzo che se la sa cavare da solo anche nelle situazioni più difficili. E forse, il suo personaggio, incarna alla perfezione uno/a di noi…che, almeno una volta nella vita, ha sognato di vedere da vicino il suo artista preferito, è scappato di casa per assistere a un concerto e ha lavorato anche di notte per poter comprare “quel” biglietto. Nella bolgia forsennata del backstage, mentre il gruppo è già salito sul palco e sta suonando, Trip viene richiamato all’ordine e gli viene affidato il compito di prendere il furgone e andare a ritirare una borsa dal contenuto misterioso. Qui entriamo nel vivo della vera e propria narrazione del film, che trova il suo equilibrio scambiandosi con le immagini della performance on stage: mentre James, Kirk, Lars e Robert suonano, i testi delle loro canzoni si ricollegano metaforicamente a quello che succede a Trip. La domanda che gira intorno a questo percorso, che porta il ragazzo ad attraversare la città e ritornare indietro sano e salvo, non è cosa contenga la borsa…ma: cosa succede fuori a una grande arena mentre si svolge un grande evento musicale di questa portata? Fuori, tutto d’improvviso sembra deserto. Strade vuote, minacciose, da scenario post-apocalittico romeriano, ci scaraventano in una realtà surreale popolata da paura, pericoli e personaggi sinistri: due su tutti, The little man – il piccolo uomo (un pupazzetto raffigurante un uomo impiccato che funge un po’ da talismano) e The death dealer – Il mercante di morte (un nerboruto killer a cavallo con una maschera antigas che ricorda vagamente i fumetti di Kenshiro). Trip deve riuscire a superare tutte le difficoltà. Scappando, sanguinando, combattendo. E, cosa più difficile, preservare quello che di prezioso ha con sé rimanendo vivo. Un bel significato e messaggio, a mio parere, quello di descrivere la vita e la sua potente energia “bianca” concentrata in un unico luogo quasi rituale, dove il mondo celebra e condivide il proprio amore per una delle più nobili arti ovvero la musica, in contrapposizione all’oscurità e alla forza “nera” del mondo all’esterno che vaga senza speranza e si nutre di odio e morte che ha perduto ogni principio e motivazione esistenziale.
L’esperienza 3d vi farà di sicuro capire di cosa sto parlando se non avete mai assistito a un concerto heavy metal e, in caso l’abbiate fatto, vi sorprenderete (com’è successo alla sottoscritta) a fare headbanging sotto lo schermo e ad alzare in alto le corna e cantare a squarciagola ogni singola parola e persino i riff e gli assoli di capolavori come Master of Puppets, Creeping death, From Whom the Bell Tolls, Battery, Nothing else matters e molti altri. Nessun vecchio trucchetto della tastiera della chitarra che esce dallo schermo, ma un 3d che dona davvero più profondità alla visione e ti ci catapulta dentro, come se anche noi facessimo parte di quella folla di fans scatenati. I Metallica si erano già avventurati in territori inesplorati (soprattutto se si pensa a una band che porta avanti da anni il genere metal, di certo poco commerciale e difficile sia da proporre a un grande pubblico che a una grande distribuzione) come il cinema: risale al 2004, infatti, il documentario Some kind of monster, che li riprende durante un periodo molto delicato e turbolento per la band, il periodo della registrazione di St. Anger, dove i componenti si raccontano davanti alla mdp svelando tutto quello che c’è dietro vent’anni (all’epoca, ora siamo arrivati a 30) di storia…che comprende problemi di incomunicabilità, assenze, dipendenze, paternità e famiglia, e momenti di vittoria e di altrettante cadute. Stavolta, ancora di più e in perfetto stile Metallica, i Four horsemen si rimettono ancora alla prova e rischiano questo nuovo esperimento. A dispetto di chi ha smesso di seguirli nel corso del tempo anche solo per un semplice taglio di capelli (per la precisione nel 1996, anno in cui uscì l’album Load).
I tempi cambiano, l’uomo e l’artista maturano e si evolvono e non ci resta altro che imparare da questi esempi di passione, costanza e professionalità. E per chi non la pensa così…beh, ci vediamo tra altri trent’anni e vediamo se almeno uno di voi è riuscito a mantenere alto il livello della propria carriera, con lo stesso entusiasmo, mettendosi continuamente in gioco e con oltre 110 milioni di dischi venduti in tutto il mondo all’attivo. Buona fortuna.
Giovanna Ferrigno