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“Mi chiamavo Susan Forbes” di Rosalba Vangelista: amore e morte nell’Inghilterra dell’Ottocento

Creato il 09 marzo 2016 da Alessiamocci

“Mi chiamavo Susan Forbes… e avevo diciassette anni il giorno in cui mi suicidai, impiccandomi al grande ramo di quercia nel cimitero di famiglia. La mia colpa? Nessuna, perché amare non porta condanna.”

La poliedrica e prolifica – lasciatemelo dire – autrice ligure Rosalba Vangelista è tornata. Dopo il romanzo “Le ossa del lago” e la raccolta di poesie “Specchio nero”, è la volta di una novella gotica autopubblicata tramite Youcanprint, così come le opere precedenti. “Mi chiamavo Susan Forbes”, col fitto bosco in copertina, fosco e lambito da un unico raggio di luce, preannuncia scenari macabri. Rosalba Vangelista è solita ambientare le sue trame in Paesi stranieri.

E infatti ci troviamo in Inghilterra, precisamente a Crawley, la valle dei corvi, nell’aprile 1847. Padre Anthony, l’anziano parroco della chiesa di St. John, muore all’improvviso. La giovane Susan Forbes, insieme alla sua benestante famiglia, si reca ad assistere alle esequie. Qui la ragazza rimane ammaliata dal fascino di un giovane uomo, più o meno suo coetaneo. Il suo nome è Nicolas, e nemmeno a lui la presenza di Susan è passata inosservata.

Al loro amore c’è però un impedimento, a metà strada fra Renzo e Lucia e Uccelli di Rovo. Nicolas è infatti il giovane parroco chiamato a sostituire padre Anthony, ed è un uomo di chiesa. Nell’Inghilterra dell’Ottocento, fortemente bigotta, simili “debolezze” non possono essere perdonate. Soprattutto se la famiglia è molto religiosa, come quella di Susan, e non vuole venire meno alle convenzioni sociali; ponendo la reputazione al primo posto, anche davanti all’amore per una figlia. Nessuno ha compassione per quel sentimento, sbocciato d’impeto fra i due giovani, costretto a palesarsi solo di nascosto.

Gli incontri avvengono all’ombra di quell’albero, accanto al cimitero, dove Susan ama recarsi quando vuole riflettere ed isolarsi dal mondo. Quella pianta “accogliente” – almeno lei – che sarà anche scenario dell’ultimo atto di una tragedia annunciata. Questa “esternatrice di tormenti”, così come l’autrice ama definire se stessa, lascia un po’ da parte la ricerca disperata di ciò che di brutto si nasconde nel profondo dell’animo, com’è stato per i libri precedenti.

Qui il lato oscuro e crudele delle persone esce subito, in tutto il suo clangore e non dà scampo. I suoi familiari – padre, madre e fratello che avrebbero dovuto proteggerla – pongono brutalmente fine a questo amore, uccidendo sia Nicolas, il “padre peccatore”, che la creatura che Susan porta in grembo. L’autrice alterna elementi romantici e dell’orrore, in linea col “romanzo gotico”.

La trama – di quello che potremmo definire come il diario di un suicidio – è intrisa della tipica “poesia sepolcrale”, ovvero di liriche con cui la protagonista riesce ad essere ancora più incisiva, fino a farle risuonare come fossero una profezia.

L’introspezione del personaggio di Susan, voce narrante, avviene attraverso uno stato di veglia, che si discosta dal “taglio onirico” impartito alla storia. Una giovane ragazza che si è data la morte non può trovare pace, e allora rimane lì, a vagare, in quelle terre coperte di bruma che hanno ospitato la sua breve esistenza; accanto a quell’albero che è stato silente testimone dell’amplesso e, allo stesso tempo, per lei una tomba.

Questa è la mia storia, questo è quello che ricordo in questo limbo mentre attendo di trovare la pace, mentre attendo di ritrovare Nicolas. Non credevo ai fantasmi, ma adesso so che esistono.

Cammina fra le lapidi, questa esile figura, con un abito “bello e vaporoso” che ricorda quello di una sposa. È però di colore nero, e riflette le angosce di chi non diventerà mai vecchio.

Written by Cristina Biolcati


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