Mi chiamo Maria

Creato il 08 ottobre 2013 da Scribacchina

Come mi chiamo?
Forse Veronica? O forse Maddalena?
… Chi se lo ricorda, sono passati tanti anni.
Potete chiamarmi Maria, se vi va.

Vengo da una famiglia semplice, una come ce ne sono tante; una di quelle dove i figli sono troppi, la madre è casalinga e il padre fa l’operaio in fabbrica.

Papà.
Lo sentivo quando si alzava di notte per andare a lavorare: mamma gli faceva il caffèlatte, lui si vestiva, prendeva la bicicletta e partiva.
Al lavoro ci andava con la sua divisa.
Era una bella tuta: sempre pulita, sempre perfetta.
Mai una piega, mai una macchia.

Era una tuta in fibra di amianto. Ce l’avevano tutti gli operai che lavoravano con lui, in quella fabbrica di sostanze chimiche.
A guardarla sembrava una tuta normale; in realtà era una tuta magica, come diceva papà: potevi farci cadere sopra tutto quello che volevi, lei sarebbe rimasta sempre uguale. Il caffè, la pasta con il ragù, la cenere della sigaretta: niente poteva macchiarla, niente poteva rovinarla.

Papà tornava dal lavoro di sera con addosso la sua bella tuta.
Poi la toglieva.
In quel momento, vedevo quello che in superficie era nascosto: piaghe sulla pelle. Ustioni, bruciature, carne viva.

Maneggiava sostanze chimiche: era normale sporcarsi con tutti quei liquidi colorati. Per questo avevano inventato le tute in fibra di amianto: per far durare più a lungo la divisa da lavoro. Papà diceva che se avesse avuto una tuta normale ne avrebbe consumata una al giorno.

Così, mentre la tuta in fibra di amianto restava immacolata, le acque chimiche passavano attraverso il tessuto e bruciavano la carne.
A tutti sembrava normale questa cosa: a papà, a mamma, agli operai della fabbrica. Anche ai padroni.

Io le ho ancora negli occhi, quelle piaghe.


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