Mia madre

Creato il 22 aprile 2015 da Giorgioplacereani
Nanni Moretti
Uno spettro si aggira per il cinema di Nanni Moretti: lo spettro dell'afasia! Forse dopo questo incipit marxista converrà spiegarsi meglio. Il filo rosso che attraversa tutto il cinema morettiano è il concetto (e il terrore) dell'incapacità di esprimersi, che esplode concretizzandosi nel mutismo. L'incapacità di parlare come immagine propria (basta ricordare la chiusa di Sogni d'oro); o come allegoria (un Papa che invece di presentarsi al balcone più famoso del mondo emette grida inarticolate); o come metafora, di cui la preferita è sempre quella (cinema nel cinema) del film che il personaggio non riesce a iniziare o finire. Non è indifferente che Moretti spesso assuma nel suo cinema, o come propri avatar o per interposta persona, figure della comunicazione come i preti, gli insegnanti e gli psicoanalisti (non i detestati giornalisti, perché quelli, direbbe Moretti, non comunicano, chiusi come sono nel proprio solipsismo). Il nuovo film di Moretti, Mia madre, non perfetto ma importante e convincente, si articola su due piani strettamente connessi. Il primo è quello dell'accettazione della realtà della morte: morte di un figlio - per disgrazia - ne La stanza del figlio, morte della madre - per l'immutabile orrore biologico delle cose - nel presente film (e qui, chiunque abbia vissuto quel passaggio vi si riconoscerà appieno). Il secondo è quello del film che non si riesce a fare. Si congiungono nel personaggio della regista Margherita Buy, che anche nel film si chiama Margherita – il che riporta, in modo barocco, l'autobiografico Apicella dei protagonisti morettiani. Da un lato la malattia e morte della madre (Giulia Lazzarini) mentre lei gira un film (qui il tema per Moretti è francamente autobiografico); dall'altro questo film politico su una fabbrica occupata, - e quindi “comunicativo”, fin dal fiero titolo Noi siamo qui - che però si scontra con assistenti che male assistono e con un protagonista, una star americana (John Turturro), che non collabora. Il punto è che questi due momenti non si fondono soltanto perché li vive la stessa persona ma perché in entrambi l'elemento dell'impotenza (a comprendere, ad accettare, e quindi a parlare) è centrale. Un tocco intelligente è la confessione di John Turturro quando si presenta a cena per riallacciare i rapporti dopo un litigio sul set: non riesce più a ricordare le battute – ecco di nuovo lo spettro dell'afasia. Inutile osservare che pure il mestiere dell'attore è una forma principe di comunicazione, visto che deve far entrare un personaggio d'invenzione nella coscienza degli spettatori (su questo Moretti sovrappone un po' inutilmente - ma è un film a volte disordinato - il discorso del cinema come non realtà, nella crisi isterica di Turturro nella scena della mensa). Tornando all'argomento principale, dobbiamo soffermarci un attimo sul tema della morte. Come mostrava perfettamente La stanza del figlio, Moretti è un ateo conseguente: per lui la morte è la fine; gli manca quella speranza per metà opportunista e per metà pascaliana degli agnostici e degli atei tiepidi onde “non si sa mai”. Di conseguenza la morte nel suo cinema mantiene un nucleo di inaccettabilità, di incomprensibilità assoluta. E' illuminante il fatto che, nel film, Margherita Buy semplicemente non comprende le parole chiarissime della dottoressa che avverte i parenti della morte prossima della madre. Qui entra come personaggio Moretti stesso, ritagliandosi una parte di fratello maggiore più saggio che rappresenta un aggancio, pur dolente, alla realtà. In altri termini è come se un “passaggio” consegnasse le ansie, i tic, le incertezze esistenziali e la connessa aggressività al personaggio più giovane – ed è una novità importante nel cinema morettiano. L'oggettiva bruttezza del film-nel-film che vediamo girare è anch'essa espressione dell'incapacità a comunicare. Essa in Moretti è sempre stata legata, non senza logica, all'egocentrismo e al narcisismo; e infatti di questo Margherita si sente accusare prima dall'ex amante (pure lui peraltro esempio da manuale di narcisismo contemporaneo: “Devo prendermi cura un po' di me; mi devo proteggere”) e poi in forma più pacata e oggettiva dal fratello. Non per nulla lei è incapace di spiegare le pompose formule cui si tiene abbrancata: sia circa la sua teoria dell'attore (un Brecht formato economico) sia – umoristicamente – quando cerca di spiegare l'importanza del latino alla figlia ribelle.Elegantemente intessuto di racconto presente, flashback, fantasie e sogni, Mia madre è il film di una crisi radicale. Quell'elemento di speranza, o meglio, di ricostruzione psicologica e morale che concludeva La stanza del figlionon sparisce ma resta implicito. Il film si conclude su un flashback della madre ancora viva che, alla domanda "A che stai pensando?", dice “A domani” - di qui, uno zoom sul viso disperato di Margherita Buy. E' uno smarrimento, una crisi generale, che non si era ancora vista nel cinema di Moretti. Mia madre non sarà un film integralmente riuscito, ma di sicuro è un film completamente onesto. Non integralmente riuscito, dico, perché il film parte in modo assai modesto. Si ha l'impressione che la sceneggiatura avrebbe potuto essere più curata; alcuni episodi si potevano anche omettere, come la scena dell'auto mandata a sbattere, o come un goffo omaggio a Fellini; si sente in alcuni momenti della prima parte quella sensazione di artificio che è la dannazione del cinema italiano; e su questo piano non aiuta una fotografia che a volte sembra riflettere la piatta oggettività della fiction televisiva (o anche peggio, in una scena di dialogo in cui l'alternanza della messa a fuoco, all'antica, sui primi piani di Margherita Buy e della madre è pesantissima e addirittura irritante). Molto buono invece il montaggio, lucido e netto come una lama di coltello, di Clelio Benevento.Bisogna aggiungere che questi difetti scompaiono man mano che il film procede e il focus si sposta sul dramma privato e sull'itinerario alla morte. Più diventa centrale l''agonia della madre e quella dei figli, più il film acquista un aspetto, raggelante e poetico, di realtà.

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