In generale, mi piace di più il Moretti un po' surreale e visionario di film quali Habemus papam e Il caimano, nei quali il Nanni nazionale guarda fuori di sé, al mondo sociale, politico, umano che lo circonda, sebbene - anche in questi casi - l'obiettivo sia sempre quello di indagare i meandri della natura umana e, attraverso di essi, se stesso.
Anche in questi casi - a dire la verità - io e lui non riusciamo ad essere veramente sulla stessa lunghezza d'onda da un punto di vista emotivo; però riesco ad accettarne lo sguardo onirico, certe forme di rigidità, nonché la distanza che in qualche modo il regista mette sempre tra sé e i suoi personaggi e persino rispetto a se stesso.
Va a finire che quello che apprezzo di più nei suoi film è la componente ludica, fatta di un'ironia tagliente e cinica che non risparmia nessuno, ma che è anche a tratti liberatoria.
E così in Mia madre il personaggio di Barry Huggins, interpretato da uno strepitoso John Turturro, è quello che mi è arrivato in maniera più diretta e sincera. Ora, posso certamente comprendere il meccanismo intellettualistico e il gioco di specchi tra realtà e finzione su cui è giocato l'intero film, e capisco anche quanto sia voluto che proprio il personaggio dell'attore sia quello che appare più vero e umano.
Fin dalle prime scene, mentre la regista Margherita (Margherita Buy, nel film l'alter ego di Moretti) sta girando il suo film Noi siamo qui, è chiara la cifra morettiana: stare dentro le cose non è un'opzione per lui praticabile, perché raccontare significa in qualche modo rielaborare e rielaborare è un'operazione intellettualistica. E ciò è tanto più vero se sei un regista, abituato - anche ormai al di là della sua volontà - a ricostruire la presunta realtà attraverso la macchina da presa. Così, realtà e finzione si rincorrono e si rispecchiano, scambiandosi i ruoli in un inseguimento percettivo che produce la paralisi emotiva della protagonista.
Per tutti questi motivi, la vicenda della malattia della madre (Giulia Lazzarini) di Margherita e di Giovanni (lo stesso Nanni Moretti) e il faticoso percorso che conduce infine Margherita non solo a guardare in faccia la morte, ma anche a provare a ri-guardare la propria vita (il proprio essere donna, madre, professionista) non hanno prodotto in me un vero processo di identificazione, bensì semmai un'operazione intellettualistica uguale e contraria a quella condotta da Nanni Moretti.
Mi sono sentita anche io in balia di "quello stronzo del regista" e non perché mi abbia presa in giro, bensì perché, nel fare la sua operazione di sincerità rispetto a se stesso, ha inevitabilmente creato una distanza con la mia sensibilità.
Voto: 3/5