Michael Ackerman

Creato il 31 maggio 2014 da Lesmotsblog


Scrivo questi pensieri a caldo, all’indomani dell’incontro con Michael Ackerman organizzato da Spazio Labò di Bologna. Li scrivo a caldo, e forse, se ci riflettessi ancora un po’, alcune idee potrebbero cambiare, potrebbero farsi strada una valutazione più accurata e una comprensione più piena della poetica di Ackerman, ma temo che le impressioni vive dell’incontro perderebbero un po’ di forza: dirò quindi cose che potrebbero essermi contestate, ma si consideri questo post come una pagina di diario, senza pretese di verità.
Siamo in una sala non grandissima – l’accesso è riservato ai soci di Spazio Labò – e attendiamo il fotografo quindici o venti minuti. Poi entra, ricoperto dagli applausi, timidissimo. Ci spiegano che Ackerman vuole chiacchierare con noi, e non fare che una breve introduzione al proprio lavoro, ma di fatto lui non fa neppure quella. Ci propone, da subito, la visione di un filmato che racchiude gli scatti più significativi della sua carriera sino ad oggi, un filmato che porta sempre con sé e aggiorna di evento in evento. Il filmato parte, e lui scivola via dalla sala, comprenderò poi bene il perché, sussurrando un – See you in twenty minutes…
Le immagini scorrono sullo schermo, con un sottofondo di voci di bambino, musiche strazianti, rumore. Corpi contorti, visi segnati, paesaggi in cui la presenza umana è quasi dimenticata. Gli edifici che Ackerman fotografa sembrano case delle streghe, gli interni hanno pareti intrise di dolore, i letti paiono letti di manicomio. Un Cristo sembra danzare sulla croce. I corpi nudi non hanno mai nulla di erotico, portano, piuttosto, il senso di una follia e di una miseria devastanti. Forse è l’effetto di un montaggio così forte, l’avvicendarsi di immagini tanto crude, ma l’impressione che ho è che un’atmosfera più sessualizzata appaia proprio quando non dovrebbe, nei ritratti di bambini, o di vecchi. Nella sala si sente scivolare un senso di angoscia, quasi spero che quel filmato si concluda. Scorrono immagini della moglie di Ackerman che allatta la loro bambina, ma non sento alcuna tenerezza in quel contatto. I corpicini dei bambini sembrano spesso senza vita.
Poi, sul finire, la musica si rallegra, il tono dell’ultima serie di fotografie è più leggero, e dopo tanto dolore, ci vale una speranza.


Quando il filmato si conclude, gli applausi sono fitti, scroscianti. E’ difficile pensare a delle domande, soprattutto per chi, come me, pensa che le fotografie non vadano e non possano essere spiegate. Ackerman stesso ci dice che fotografa per cogliere qualcosa che non saprebbe dire altrimenti, con una volontà di comunicazione, dunque, ma forse senza oggetto. Penso che l’arte sia proprio questo. Adorno diceva qualcosa del genere. Quando lo studiai, mi venne in mente un verso di d’Annunzio, che non è un verso sull’arte, ma sulle rondini, eppure mi è tornato in mente ieri, vedendo gli uomini ritratti da Ackerman. E non promette ogni lor breve grido /un ben che forse il cuore ignora e forse / indovina se udendo ne trasale? L’arte è questa capacità di dire qualcosa in più di quanto non si dica, una tensione verso un’ulteriorità che non può essere data altrimenti.
Ackerman vuole tornare su una bellissima immagine di sua figlia. L’ha ritratta in quella posa migliaia di volte, ci racconta. Ma la forza di questo scatto è nel suo essere indefinito, nel suo non comunicare nulla di immediato.
Dal pubblico arriva qualche domanda, la timidezza di Ackerman non aiuta a vincere la nostra. Ma il fotografo è disponibile e quando c’è silenzio in sala ci invita a fare altre domande – Next. A volte sembra aver concluso la risposta, ma ci ripensa, ferma la domanda successiva e aggiunge qualcosa, mai in modo banale.
Ci racconta che le prime foto che abbiamo visto le ha scattate con una Polaroid in paesi in cui non conosceva nessuno, non conosceva neppure la lingua e avvicinava la gente così, fotografandola. A volte passava ore a ritrarre degli sconosciuti, persone sole, esaltate dalla possibilità di uno spazio proprio, di un’attenzione. Ha consumato sei rullini per ritrarre un’elefantessa in uno zoo polacco, perché gli sembrava di cogliere un grido di orrore salire da quella gabbia.
Una ragazza dice di aver sentito un’atmosfera horror nel filmato, ma Ackerman non è d’accordo: non si tratta di horror, è il dolore della vita, un dolore che ha anche qualcosa di bello. Viene da chiedersi che vita abbia vissuto, Ackerman, sembra uno che ha provato quel dolore sulla propria pelle e ci si chiede come sopporti ancora la tensione dei proprio scatti. Ha visto il mondo: cresciuto a New York, appare sradicato anche nelle foto scattate dentro casa, accanto alla moglie.
Ci fa notare che ci sono anche foto ironiche, ce ne mostra qualcuna, ma a me sembra di sentire piuttosto l’ironia inquietante dei clown. Ci racconta di una donna francese che ha amato, ma da cui è stato rifiutato e trattato con ostilità. Riusciva a stare accanto a lei solo fotografandola e ha smesso di farlo quando l’ha sognata avvolta in un macabro cappotto di pelle, con un cappello nazista, che gli sguinzagliava contro due cani feroci.
Esco dalla sala con la voglia di chiudermi nei miei pensieri, ma incontro un’amica con cui ho seguito un corso di fotografia: mi dice di aver provato anche lei la stessa angoscia, le immagini hanno toccato molto tutti. Mi avvio verso casa con la sensazione di aver partecipato a qualcosa di bello, nella sua forza. Altro non so dire, e forse è un buon segno.