Michelangelo: il poeta dietro l'artista

Creato il 06 marzo 2014 da Athenae Noctua @AthenaeNoctua
«La poesia è pittura parlata, la pittura è poesia silenziosa»
Plutarco, nel testo Nella gloria degli Ateniesi, fa riferimento ad un'affermazione del poeta Simonide di Ceo, vissuto fra il VI e il V secolo a.C., che sembra pronunciata apposta per il grande artista di cui oggi ricorre l'anniversario della nascita, Michelangelo Buonarroti (Caprese, 6 marzo 1475 - Roma, 18 febraio 1574). L'autore dei grandiosi affreschi della Cappella Sistina e delle poderose sculture realizzate per i pontefici e per i Medici ci ha infatti lasciato una prova dello straordinario connubio fra parole e immagini, consegnandoci le oltre trecento Rime composte dal 1500 in avanti.
Il tema prevalente nelle poesie michelangiolesche è quello dell'amore, vissuto come un tormento, come una durissima prigionia e segnato dai lutti, dallo spegnersi della bellezza, dall'adagiarsi nella morte della vitalità fascinosa. Ma l'amore è anche la forza che allontana da Dio, che crea vaneggiamenti e false speranze, è distruttivo e si lega, inevitabilmente, alla morte. La visione del sentimento, della passione e della perdizione ricalca spesse volte quella di Petrarca nel suo Canzoniere, anche se il linguaggio appare molto più vivido e ruvido, lontano dalle sublimi vaghezze del poeta concittadino.

Schiavo morente (1513)

Nel settimo componimento, Michelangelo appare simile allo Schiavo morente del Louvre, figura originariamente destinata alla tomba di Giulio II: è prigioniero dell'amore, incapace di scappare, immagina di essere bloccato in vincoli indissolubili.
Chi è quel che per forza a te mi mena,
oilmè, oilmè, oilmè,
legato e stretto, e son libero e sciolto?
Se tu incateni altrui senza catena,
e senza mane o braccia m’hai raccolto,
chi mi difenderà dal tuo bel volto?
Non diversamente è ritratto il poeta componimento 11, dove viene invocata la morte, unica soluzione ad un tormento provocato da una donna che ignora totalmente il poeta. L'amore è come una dannazione, che avvicina l'inquieto Michelangelo ad uno dei più evidenti dannati rapiti dai diavoli nel Giudizio Universale.
Quanto sare’ men doglia il morir presto
che provar mille morte ad ora ad ora,
da ch’in cambio d’amarla, vuol ch’io mora!
Ahi, che doglia ’nfinita
sente ’l mio cor, quando li torna a mente
che quella ch’io tant’amo amor non sente!
Come resterò ’n vita?
Anzi mi dice, per più doglia darmi,
che se stessa non ama: e vero parmi.
Come posso sperar di me le dolga,
se se stessa non ama? Ahi trista sorte!
Che fia pur ver, ch’io ne trarrò la morte?

Cappella Sistina, Giudizio Universale, part. (1536-1541)


Un abbondante numero di componimenti rientra nella tipologia degli epigrammi funerari: leggendoli, sembra di vedere l'artista di fronte al marmo, pronto a scolpirne la massa per offrire un degno ricordo di colui che vi dovrà essere sepolto; sappiamo, infatti, quanto siano state grandi le difficoltà nella progettazione dei sepolcri più noti realizzati dall'artista, primo fra tutti il già citato monumento di Giulio II, passato attraverso sette fasi di ideazione e modifica. Uno di questi epigrammi (185) sembra la voce della tomba di Lorenzo de'Medici, duca di Urbino morto a soli ventisei anni di sifilide (1519) e sepolto nelle Cappelle Medicee in San Lorenzo, a Firenze:
Qui son sepulto, e poco innanzi nato
ero: e son quello al qual fu presta e cruda
la morte sì, che l’alma di me nuda
s’accorge a pena aver cangiato stato.
Il defunto che parla è una delle formule caratteristiche di questo tipo di produzione, che Michelangelo riprende anche nelle altre poesie di questo genere, talvolta rivolgendosi al visitatore della tomba. La visione della morte e del sepolcro sancisce una netta frattura fra colui che vi è custodito e chi gli reca omaggio: Michelangelo nega qualsiasi comunicazione (testo 199) e, insieme, quella grandezza che Foscolo, tre secoli dopo (1807), riconoscerà alla tomba anche in riferimento a quella dell'artista in Santa Croce (Dei Sepolcri, v. 159).
Chi qui morto mi piange indarno spera,
bagnando l’ossa e ’l mie sepulcro, tutto
ritornarmi com’arbor secco al frutto;
c’uom morto non risurge a primavera.

Tomba di Lorenzo de'Medici, duca di Urbino (1524.1534)


Non c'è alcuna possibilità di riportare in vita i morti, anche il ricordo è una vana speranza e il pianto non è che un inutile bagno per le ossa e il marmo del sepolcro. Anche la fama, in fondo, non fa che bloccare il tempo, senza permettere, nemmeno nel futuro, alcun progredire della vita (rima 13):
La fama tiene gli epitaffi a giacere; non va né inanzi né
indietro, perché son morti, e el loro operare è fermo.
Ma Michelangelo riflette anche sulla propria morte, esprimendo a parole quel senso di malinconia e rassegnata attesa che scolpisce sul volto di Nicodemo della Pietà Bandini (1547-1555). L'uomo guarda il corpo di Cristo morto fra le sue braccia, si duole, ma il fatto che l'artista abbia scelto di dare a Nicodemo le proprie sembianze fa riflettere sul significato di quello sguardo, sull'attesa di quella morte che è l'unica via di ritorno al Signore. Questa stessa amarezza si incontra nel sonetto 195, dove il poeta attende quell'unica meta che libererà l'anima da una vita dura e meschina.
Di morte certo, ma non già dell’ora,
la vita è breve e poco me n’avanza;
diletta al senso, è non però la stanza
a l’alma, che mi prega pur ch’i’ mora.
Il mondo è cieco e ’l tristo esempro ancora
vince e sommerge ogni prefetta usanza;
spent’è la luce e seco ogni baldanza,
trionfa il falso e ’l ver non surge fora.
Deh, quando fie, Signor, quel che s’aspetta
per chi ti crede? c’ogni troppo indugio
tronca la speme e l’alma fa mortale.
Che val che tanto lume altrui prometta,
s’anzi vien morte, e senza alcun refugio
ferma per sempre in che stato altri assale?

Pietà Bandini, part.


Eppure il rapporto con Dio non si nutre solo di malinconia: è anche la fonte di un'ispirazione di cui conosciamo bene la vivacità e di cui possiamo godere i frutti, perché, dal Creatore, Michelangelo ha desunto visioni bellissime, che, un po'come accade a Dante nel Paradiso, non si potrebbero descrivere: Dio è una sorgente di amore e pietà che sa rendere la morte dolce e sostenibile (sonetto 83).
Veggio nel tuo bel viso, signor mio,
quel che narrar mal puossi in questa vita:
l’anima, della carne ancor vestita,
con esso è già più volte ascesa a Dio.
E se ’l vulgo malvagio, isciocco e rio,
di quel che sente, altrui segna e addita,
non è l’intensa voglia men gradita,
l’amor, la fede e l’onesto desio.
A quel pietoso fonte, onde siàn tutti,
s’assembra ogni beltà che qua si vede
più c’altra cosa alle persone accorte;
né altro saggio abbiàn né altri frutti
del cielo in terra; e chi v’ama con fede
trascende a Dio e fa dolce la morte.
In questa speranza di tornare a vedere il viso di Dio sembra adagiarsi il significato del primo contatto con il principio cui ogni uomo e ogni cosa esistente dovrà tornare godendo della salvezza e della vita oltre la morte; condensato in pochi versi, ma sparso per tutte le Rime come un continuo rapporto di devozione, sembra mostrarsi ai nostri occhi di lettori la straordinaria visione del primo incontro con Dio, magistralmente riassunta in due dita che si sfiorano sulla volta della Cappella Sistina.

Volta della Cappella Sistina, La creazione di Adamo (1508-1512)


C.M.

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