Midnight Special - Recensione

Creato il 12 febbraio 2016 da Lightman

Berlinale 66

Jeff Nichols torna con successo sul rapporto padre-figlio, declinando una parabola che parte da Take Shelter e trova in Midnight Special il suo punto di arrivo naturale, di nuovo attraverso gli occhi di Michael Shannon.

Serena Catalano Figura mitologica metà umana e metà pellicola, ha sfidato e battuto record mondiali di film visti, anche se il successo non l'ha minimamente rallentata. Divora cortometraggi, mediometraggi, lungometraggi, film sperimentali, documentari, cartoni animati: è arrivata addirittura fino alla fine della proiezione di E La Chiamano Estate. Sogni nel cassetto? Una chiacchierata con Marion Cotillard ed un posto nei Tenenbaum.

Nel buio di una stanza d'albergo, uno speaker televisivo annuncia il rapimento di un bambino: non ci sono foto, ma si sa che ha otto anni, occhi blu e corti capelli scuri - e soprattutto che viaggia con un uomo, Roy, lo stesso che ascolta l'annuncio alla tv. Jeff Nichols riconosce vittime e colpevoli già dai titoli di testa, con la voce prima ancora delle immagini. I titoli di Midnight Special scorrono, e prima che scompaiano in favore di quella stanza d'albergo noi abbiamo già un colpevole, che nel buio si nasconde e tra le sue pieghe porta via il bambino dall'albergo con il suo complice. Alton ha otto anni e vive di notte: di lui non si sa molto altro, se non che i suoi misteriosi poteri sovrannaturali non gli permettono di vedere la luce del giorno - e così Jeff Nichols, con l'aiuto di Adam Stone alla fotografia, dipinge la fuga di Roy, Alton e il complice Lucas tra le tenebre, preoccupandosi non tanto di illuminare quanto di pennellare l'oscurità, squarciata solo dalla luce del bambino.

Da Take Shelter a Midnight Special, l'analisi di un rapporto genitoriale

Roy porta via quel bambino come se ne andasse della sua vita - e forse è proprio così, perché Alden è parte della sua esistenza, è un pezzo di sé. Non è un bambino qualsiasi, è il suo bambino, un bambino che ha il potere di squarciare le tenebre con la luce nei suoi occhi, di far tremare le pareti, di far crollare satelliti sulla terra dallo spazio. Un bambino che, nonostante non sembri essere di questo mondo, rimane comunque da lui generato. Jeff Nichols concentra la sua attenzione sul rapporto padre-figlio creando una relazione pura, che fa della fiducia e della determinazione le chiavi di volta per il raggiungimento di uno scopo comune. Il percorso è già segnato e viene da Take Shelter, dove il rapporto con un'entità superiore - sia essa la natura o, in questo caso, una popolazione extraterrestre - diventa il mezzo per raggiungere la propria maturità emotiva e comprendere lo scopo del proprio viaggio. Al servizio del regista torna non a caso Michael Shannon, ormai fedele alla poetica di Nichols, che nei panni di protagonista presta voce e corpo alle parole del regista - qui anche alla sceneggiatura.

Un lavoro curato e riuscito

La prima parte del film scorre come un viaggio in macchina a fari spenti nella notte: lo spettatore fugge con loro e con loro arriva a comprendere, passo dopo passo, l'importanza di Alton e i motivi che spingono FBI e CIA a cercarlo con così tanta solerzia. Il disegno si dispiega davanti ai nostri occhi uno strato dopo l'altro, mentre le prime luci del giorno iniziano ad illuminare volti, parole ed insicurezze: fotografia e scenografia si prestano al servizio del passaggio, aiutando il percorso di Alton che si affaccia per la prima volta di fronte al suo vero mondo come un moderno E.T. richiamato dall'astronave madre, e lasciato dalla sua genitrice naturale (una convincente Kirsten Dunst) tra le braccia del suo futuro. Un lavoro interessante, quasi catartico, che Nichols porta avanti con evidente consapevolezza in ogni momento della pellicola, ed interessanti intenzioni che si leggono sia nella sceneggiatura che nella messa in scena, curata nei minimi dettagli.

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