Miele è un film importante perché
si occupa del fine vita, non dell’eutanasia in senso stretto. Lo dice bene
Paolo Mereghetti sul Corriere della Sera: “Il
tema del film è molto più semplice e insieme molto più complicato, disturbante.
Miele pone allo spettatore una domanda a cui forse non è preparato a
rispondere, semplice e diretta nella sua crudezza: come si guarda in faccia la
morte?”. Domanda difficile, anche perché dalla morte si tende a distogliere
lo sguardo. Non si tratta di un film sulla legislazione attuale, ideologico o provocatorio.
Miele-Irene è una ragazza che aiuta i malati terminali a morire,
clandestinamente e a pagamento: dunque nessun giudizio morale. Sulla sua strada
incontra Carlo Grimaldi, un anziano ingegnere che ha bisogno del suo aiuto. Lei
dà per scontato il fatto che sia malato, non glielo chiede neppure, e gli
consegna il barbiturico necessario per il suicidio assistito. Nel momento in
cui comprende che il suo malessere è di altro genere, nasce uno scontro umano, generazionale
– sono persone assai dissimili – da cui scaturisce un’amicizia affettuosa, una
comunione fatta di gesti più che di parole. Sono due solitudini che si guardano
e si rispecchiano. Irene è una ragazza che si nega all’amore ma -
paradossalmente, per il mestiere che fa - estremamente vitale; il dolore e la
pietà che prova quando aiuta i pazienti a morire si traduce in un movimento continuo.
La fine di quest’uomo, che invece conserva un male di vivere misterioso, forse troppo
profondo per essere espresso, la costringerà a fermarsi e, in qualche modo, a
rigenerarsi. È l’osmosi che si crea tra le persone che si vogliono bene, che si
passano l’un l’altro parole, musica, conoscenze, emozioni, permeandosi vicendevolmente,
inavvertitamente, delicatamente.
Miele,
di Valeria Golino, con Jasmine Trinca, Carlo Cecchi, Iaia Forte, Libero de Rienzo (Ita/Fra, 2013,
96’). In programmazione al Cinema Fratelli Marx di Torino. In concorso alla 66esima edizione del Festival di Cannes, sezione "Un Certain Regard".