Di Jaume Balaguerò condivido l’idea di universo narrativo. Quel Mientras Duermes, programma radiofonico (ma anche televisivo, se ricordate), è proprio lo stesso in cui lavorava Angela Vidàl, intrappolata nel condominio degli infetti con Pablo armato di telecamera.
Balaguerò s’è creato una Spagna alternativa, immaginifica e cupa, non necessariamente migliore, ma confacente ai suoi gusti ed esigenze. L’autore lo fa.
E proprio da quella Spagna non riesce a evadere, per fortuna.
Mientras Duermes si rivela opera interessante, sfaccettata, ed è vero, anche inquietante, che mostra un divertimento, un attaccamento quasi morboso per le sorti del protagonista, morboso anch’egli, per la sua volontà di riuscire, che ha del prodigioso.
Ecco, suoniamocela, una volta tanto. Balaguerò autore fallibile come tanti altri, costretto a lavorare per questioni di pecunia, e con un gioiello come Rec, chi non avrebbe battuto il chiodo? Ma che poi si rilassa, si concede a una piccola storia di soprusi e abusi quotidiani, presentandocela senza forzature, senza moralismi, per ciò che essa è: una storia sbagliata.
La cosa che apprezzo è che non esistono torti sufficientemente grandi da essere raddrizzati, per contrappasso, perché sia dovuto. Quella è una distorsione tipica di un certo moralismo sciatto.
Qui le cose accadono, mettendola sul filosofico, perché una libertà si scontra con le altre e ne prende il sopravvento. Siamo tutti liberi, si diceva, finché non si incontra una libertà superiore.
Gestione del Caso, e intelligenza unita a sistematicità.
***
[solo un piccolo spoiler, ma non è la fine del mondo]
César (Luis Tosar) è il portiere di un condominio. Si alza al mattino presto, lasciando la moglie a dormire, e occupa la guardiola, sbrigando, di tanto in tanto, piccoli lavoretti per i condomini; schivando i tentativi di siluramento da parte di uno di essi.
Una situazione familiare a tutti, come sempre.
Il fatto è che Balaguerò potrebbe essere il mio vicino di casa, tanta familiarità ho con le ambientazioni elette a scenografia.
Storia di quotidiano dolore, quindi, perché César, che all’apparenza ha tutto ciò che un uomo può volere, soffre di quel vuoto interiore, che gli impedisce di assaporare la felicità.
Certi uomini, parafrasando lui stesso, vivono la felicità come condizione aliena, impossibile.
E fin qui, nella fotografia livida che accompagna la grigia realtà del portiere, accompagnata dallo score cupo e malandato, la storia sembra il dramma di una non-vita, o di una vita che non si adatta alla stupida normalità.
Ma ecco che, nel giro di dieci minuti, secondo un intreccio svelato con maestria, la prospettiva si ribalta, le certezze costruite dall’osservazione del quotidiano, delle attività di César vengono frantumate. Non è sposato, e la donna con cui condivide il letto non sa di dormirci insieme.
***
L’empatia nei confronti del mostro. Ne abbiamo già parlato, in chiusura di quest’articolo. Solo che, in questo caso, trattasi non di empatia forzata, che nasce da futile giustificazione, posticcia e ridicola, nei riguardi dell’agire del mostro stesso, che così sceglie di esistere per sfogare i torti subiti.
Il passato di César non ci interessa, tant’è che li regista lo ignora. Piuttosto, César è un vuoto, di lui non ci viene mostrata, per dire, neppure una foto, un cimelio, un oggetto qualunque che ne riveli la personalità, il carattere, qualche preferenza, ma solo la madre malata in un letto d’ospedale, che egli va a trovare tutti i giorni, confessandole le sue attività notturne, come fosse cosa buona e giusta.
Madre che, all’apparenza, capisce tutto, ma che è impossibilitata, dalla malattia, a interagire.
Il vuoto di César, quindi, venuta meno anche la necessaria coscienza esteriore (la madre) è assoluto. Egli è uomo anonimo che si appropria, letteralmente, della vita che ha scelto per soddisfare il suo bisogno di esistenza. Ma non per identificarsi con essa, piuttosto per lasciare la sua impronta, il suo marchio, perché la propria, tramite il dolore insinuato in quella altrui abbia, finalmente, uno scopo.
***
César agisce mentre dormi, si avvicina e ti si sdraia accanto, dopo averti fatto sprofondare in un sonno senza sogni, drogato, averti reso un oggetto.
La filosofia, nei film la si vede quando c’è. A questo punto, l’oggettivazione che César impone alla sua vittima, sa di morte apparente, perché ogni mattina, invece, ella risorga a nuova vita, non avendone il minimo ricordo, fino a quanto questa sorta di inganno, un circolo vizioso che fa ripetere tutte i giorni lo stesso giorno, non viene svelato.
Grandioso Luis Tosar, idolo e mostro. Mostro che sa tanto, com’era d’uso eoni fa, di prodigio.
Regia cattiva, che sta a guardare. Facciamo il tifo per lui, Cèsar, perché non si arrivano a giustificare le sue azioni, ma a sentire il vuoto che lo identifica. Quell’abisso sul quale molti di noi hanno guardato.
La vita felice degli altri è specchio deformante della propria, inganno, conseguenza, la si subisce. A meno che, non entri in gioco la volontà di cambiare le cose, prendere in mano la propria esistenza. Solo che, César, non avendone una propria, prende quelle degli altri.
Ecco, questo è ciò che Balaguerò ci dice, alla fine. Spiega le ragioni del mostro, gli consente un punto di vista privilegiato, mai ipocrita, che atterrisce, proprio per quella profondità di sguardo che ci viene concessa.
Altre recensioni QUI