Stoppie di frumento.
Era rimasto l'ultimo. Ancora una decina di giorni fa, si confondeva nell'oro ramato degli altri campi di grano che lo circondavano nel falsopiano prima delle colline. Spesse, dense coltri di spighe, così vicine da tenersi in piedi l'un l'altra nonostante il carico di granella di cui erano orgogliose portatrici. Anche se col passare dei giorni, il capo chinava sempre di più, in quella fatica di vivere che sapeva essere vicina alla fine. Ma una fine gloriosa, ricca e ferace, piena di promesse e di orgoglio. Ogni campo, con una sua sfumatura leggermente diversa, con tutte le componenti dell'oro, a seconda selle varietà, così tante e differenti che l'intelligenza dell'uomo ha saputo creare in barba a chi, non conoscendo, pensa che il miglioramento genetico produca perdita di diversità. Qualcuna chiara, quasi bianca come la carta preziosa, altre del rosso acceso che la secchezza ha ormai avvinto, altre ancora quasi rosate per il sottile strato di pruina che avvolgeva le glume. Lunghe ariste a formare un tappeto sconfinato o corte spighe tozze e quasi nude, con la punta squadrata o invece aguzza ed elegante, altre ancora quasi deformi al centro per le cariossidi soprannumerarie che ne rigonfiano la parte centrale. Ma ormai il tempo era arrivato al termine ed i miliardi di cariossidi erano ormai pronte, secche al punto giusto per permettere di essere conservate, asciutte ma non avvizzite, anzi rotonde grasse, ricche e pesanti. Così ad uno ad uno, la grande macchina gialla, li ha ingoiati, quei campi rigogliosi. Con metodica ma implacata lentezza la larga bocca dalle lunghe zanne ingorde, è entrata impietosa a compiere il suo dovere.
Taglia aspira frantuma dividi e poi ancora sgrana separa ripulisci ammucchia e avanza sempre alla stessa velocità, guadagnando terreno e spazio, facendo scomparire nel grande ventre la messe e lasciando dietro di sé soltanto l'andana diritta della paglia sminuzzata. Poi quando la grande bestia si sente piena, eccola correre al limitare del campo come un commensale della mensa di Trimalcione, mai sazio di piaceri, enfio di cibo, ma voglioso di averne ancora, a liberarsi vomitando quanto ingoiato ingordamente nel carro in attesa. Così a poco a poco se le è divorate tutte, le immense tavole gialle di spighe arcuate dalla canicola estiva. Era rimasto solo lui, quel grande campo quadrato al limitare della strada lunga e diritta, lontano da case e da capannoni fastidiosi. Dietro, una vigna verde e giovane risaliva la collina con promesse autunnali. Sembrava quasi che se lo fossero dimenticato, così isolato, sebbene ricco e gremito di spighe chiare dalle lunghe ariste che fremevano alla brezza, forse Centauro, forse qualche nuova varietà che io più non conosco. Ieri sono passato e quasi non l'ho riconosciuto il posto. Il destino si era compiuto. Il campo spoglio era disegnato dalle andane gonfie di paglia tagliata, infinite strisce regolari che disegnavano la geometria del lavoro, la perfezione del progetto. La terra ormai secca e dura che il calore estivo ha reso crostosa e resistente è rimasta ricoperta degli spuntoni gialli degli steli mozzati, duri come spine puntate verso l'alto. Ancora intravedi le file ordinate della semina tra la stoppia pungente. Un taglio severo che lascia la coperta di una spazzola pungente, come quel barbiere dove mi portava la mia mamma da bambini, che brandiva la macchinetta in una mano e ti afferrava la testa deciso con l'altra, per il taglio estivo all'Umberta. Lontano, in un angolo del campo il grande mostro ormai fermo, ebbro per l'ordalia compiuta. I carri pieni se ne sono già andati al Consorzio Agrario a scaricare, assieme al resto, nel grande mucchio comune. Ricchezza, abbondanza, promesse di farine e di pane e molto altro. La carestia è ancora lontana.