Il nome del figlio di Francesca Archibugi (2015)
Non so proprio da dove cominciare. Non vedevo la necessita’ di un remake del francese “Le Prenom” (titolo italiano: ”Cena tra amici”) di Alexandre de La Patellière e Matthieu Delaporte, tratto dalla loro stessa piece teatrale. Badate bene, non perche’ ero spinto da chissa’ moto nazional-socialista o perche’ avessi disprezzato il film transalpino: tutt’altro. Film pur non molto originale nella messa in scena, ma ricco di contenuti e scritto con vivida ispirazione, riusciva a non perdere molto della propria freschezza nel passaggio dal sipario alla tendina. Non voglio dilungarmi troppo nel parlare del film francese, ma credo sia doveroso per poter descrivere cosa proprio non ha funzionato nella versione italiana che prende il titolo di “Il nome del figlio” di Francesca Archibugi scritto da Francesco Piccolo. I due film sono pressoche’ identici, anche perche’ gli elementi nuovi nella scrittura italiana hanno lo stesso identico effetto di una proprieta’ commutativa. Sinceramente da uno sceneggiatore come Francesco Piccolo (“Paz!”,“Il Caimano”, “Capitale Umano” tra gli altri) ci si aspetta un adattamento molto meno organico al testo originale ma piu’ organico con quella che e’ l’attualita’, e il testo francese gli dava una ghiotta opportunita’ visto che andava a scardinare I “dogmi” della gauche, tutta presa dalla correttezza di un buon lessico solo quando necessario. Riflesso su se stessa, proteso dunque all’autocompiacimento anche il centrosinistra ai tempi di Renzi, sarebbe stato terra di conquista per una qualsivoglia critica, ma l’unico aspetto che riesce a cogliere e’ l’abuso dei social network, twitter nella fattispecie, nel personaggio interpretato da Luigi Lo Cascio, ai minimi della sua pur dignitosa carriera. Il film e’ uscito da poco piu’ 10giorni per cui non conosco ancora I risultati definitivi al botteghino, ma una cosa e’ certa: si tratta solo di una mera operazione commerciale, una paraculata per dirla alla romana. La Motorino Amaranto, casa di produzione “indipendente”, alla quale fa capo Paolo Virzi’, forse per rientrare dei soldi investiti per “Capitale Umano”, forse come Virzi’ per fare il salto di qualita’ nel cinema di distribuzione mondiale (ossia papabile per le nominations degli Academy Awards ndr), prova a seguire il filone o la tendenza aperta da Luca Miniero quando ha diretto “Benvenuti al Sud” e “Benvenuti al Nord”, anch’essi derivati da un corrispondente francese (ma guarda che coincidenza!) “Bienvenue chez les Ch’tis” (titolo italiano “Giu’ al Nord”) di Dany Boon. Mentre Miniero, onestamente fa quello che andava fatto ossia incollare alle esigenze del pubblico italiano una commedia fresca ma piena di luoghi comuni delle “non” differenze tra il Nord e il Sud del BelPaese servendosi di due caricaturisti come Bisio e Siani, l’operazione commerciale condotta dalla triade Virzi’-Archibugi-Piccolo non dice niente, farnetica qualcosa, ma non ha l’interesse a dire niente di nuovo neppure quando prova a confrontare I nostri tempi agli anni settanta/ottanta, forse l’unico elemento non dico nuovo, ma almeno diverso dall’originale. Se poi anche inserire una gopro-giocattolo (almeno da’ finalmente un punto di vista diverso nella marmellata spacciata per messa in scena tramite qualche steadycam), un twitter-addicted e il vero parto cesareo della pur sempre generosa Micaela Ramazzotti, significhi stare al passo con I tempi, allora siamo di fronte ad un punto di ritorno: la stasi di chi non ha piu’ fame di raccontare alcunche’. Di questo obbrobrio, perdonatemi la franchezza, rimangono la magistrale direzione dei bambini, ormai marchio di fabbrica della Archibugi e il tributo a Lucio Dalla con di fatto il videoclip inedito di “Telefonami tra vent’anni”, che almeno regala un tocco di classe e leggerezza amara a questa deriva di stasi creativa, che a poco a poco sta travolgendo anche gli ultimi capisaldi di una nostrana cinematografia d’autore. Rimane infatti il fortissimo rammarico nel notare che il film e’ stato conferito del titolo di interesse culturale nazionale, ovvero e’ stato in parte prodotto con soldi pubblici. Fa molto male considerando che spesso non ci sono fondi pubblici per la manutenzione del patrimonio artistico italiano, ma soprattutto anche perche’, almeno inizialmente, questo strumento veniva adoperato per finanziare le opere prime e lo sa bene Francesca Archibugi, alla quale meritatamente nel 1988 venne concesso per sovvenzionare il suo film d’esordio, “Mignon e’ partita”. Curiosamente il caso volle all’epoca che fosse l’unico lungometraggio citato per il buon utilizzo di questi finanziamenti pubblici. Altri tempi, altra fame di “cultura”.