(analisi Paradiso perduto)
Il risveglio dalla narrazione gomeziana del prologo, è un ritorno al cinema. Si è su un livello meta-cinematografico. È la protagonista Pilar che, infatti, come lo spettatore, volge lo sguardo allo schermo per lasciarsi illudere dalle meraviglie cinematografiche, nonché dall’affabulante voce che narra le vicende dell’intrépido explorador. Il risveglio non è uno dei migliori: è il risveglio nella vita quotidiana, nel Paradiso perduto.
Qual è questo paradiso che ormai si è perso? In un primo istante si è portati a credere che si è perduta la storia proiettata nel cinema di Lisbona, mentre in verità si è perso un altro “paradiso”, la seconda parte del film. Gomes stuzzica l’appetito dello spettatore con il suo prologo mozzafiato, per lasciar brontolare lo stomaco fino al successivo capitolo Paradiso. Viene, insomma, mostrato prima lo stato di privazione che lo stato di normalità. Il cervello compensa con il prologo, affidandogli il ruolo di Paradiso. Errare è umano e ben presto ci si renderà conto – come si vedrà – che l’Eden non risiede nel paesaggio naturale africano, ma in qualcosa d’altro.
“C’è sempre qualcosa di un po’ nostalgico nei miei film e sono, anch’io, un po’ melancolico. Ma c’è pure un lato ironico, ed è necessario che questi due stati d’animo esistano nello stesso tempo. Per me, è la condizione per fare un film: lasciare uno spazio per lo spettatore […], che non è costretto a prendere tutto ciò che il regista mette sullo schermo. Per fare in modo che sia libero di scegliere, bisogna maneggiare i contrari: del comico e del tragico, dell’ironia e delle emozioni di primo grado. Non c’è contraddizione.”
“È Pilar il centro della prima parte. Volevo iniziare con un personaggio ordinario cosciente di ciò che lo circonda. Ho chiesto all’attrice che l’interpreta di recitare un ruolo femminile un po’ rovinato, che guarda il mondo come se guardasse un film, con l’aria un po’ sconcertata. Vuole essere la madre della polacca, la figlia assente di Aurora, salvare il mondo con le sue preghiere: non va molto lontano, ma a amo la sua generosità qualunquista, come tenta di caricarsi sulle spalle la colpevolezza degli altri. È un personaggio ingenuo e commovente, una buon anima talmente gentile che risulta essere spiacevole, una donna un po’ abbandonata che dà un passaggio a tutti in macchina, ma che resta sola a capodanno. Amo molto questo personaggio. La storia di Ventura è come se fosse un regalo per riempire il suo desiderio di finzione.”
Ed è proprio su questa ultima sequenza che arriva all’apice il rapporto creativo, e non autodistruttivo, fra ironia e saudade. Ventura, dopo aver celebrato il funerale di Aurora (tra l’altro con una sequenza mozzafiato a cinepresa statica, nella quale il quadro filmico accoglie l’entrata e l’uscita da destra a sinistra del corteo funebre, in una Lisbona tormentata dal vento e con sullo sfondo dei pescatori che piegano le reti), si reca sotto l’invito di Pilar a bere un caffè in un centro commerciale. Qui, il racconto che si appresterà a narrare Gianluca, è anticipato per sottrazione dalla decorazione del centro commerciale. Per caso, per ironia della sorte, il bar si trova ai piedi di una giungla finta e in balìa di un tucano di plastica. Il racconto di Ventura, è una storia d’amore e di dolore, ma che inizia in questo sottofondo scenografico fittizio che rende il tutto carico di novità: cinema, insomma.
Mattia Giannone