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Mika in una toccante lettera al Corriere della Sera spiega i motivi che l’hanno spinto a reagire agli insulti:

Creato il 12 agosto 2015 da Musicstarsblog @MusicStarStaff

mika

Questo il testo:

“Quando ho visto su Instagram la foto del poster di Firenze, con la mia faccia imbrattata mi sono sentito triste, umiliato. Il primo istinto è stato: non dire niente a nessuno, non replicare, non muovermi. Sono in tour, posso girarmi dall’altra parte, esibirmi e stare bene. Spingere lontano gli insulti.

Ma  i fan hanno iniziato a parlarne, gli amici a scrivermi messaggi. E mi sono reso conto che la mia prima reazione era ancora quella di un tempo, quella di una persona molto giovane che si sentiva impotente. A scuola ero così, inerme. Se allora avessi risposto mi avrebbero picchiato e non avrei ottenuto altro che tornare a casa con un livido in faccia. So che cos’è il bullismo, mi venivano addosso. Per razzismo, per il fatto che mia madre era grassa o perché in quel periodo avevamo problemi di soldi. Soprattutto, l’80 per cento delle volte, per la mia sessualità. Prima ancora che io fossi consapevole della mia sessualità.

Quando da bambino ti attaccano pensi che non puoi reagire, perché se reagisci quelle cose diventano ancora più grandi — una montagna. Da piccolo la mia rivalsa è sempre stata lenta, riflessa, diluita nel tempo. Cercavo di spostare lo sguardo dalla mia condizione, mi concentravo sul futuro.

Messo di fronte a quel poster mi sono sentito di nuovo come quel ragazzo. E la mia risposta istintiva è stata leccarmi le ferite, chiudere gli occhi, proiettarmi in avanti. È un riflesso automatico, lo stesso che prende la maggior parte delle persone che sono state vittime dei bulli: girati, tieniti dentro tutto.

Poi ho capito. È una delle poche volte nella mia vita in cui sono stato costretto a scegliere il confronto diretto su bullismo e omofobia, mi sono reso conto di quanto le cose siano cambiate, di quanto io sia cambiato.È stato per la reazione delle persone sui social network, per i miei amici e, devo ammettere, per i miei compagni di lavoro. Alcuni tra loro sono gay e sono rimasti feriti, perché sono legati a quello che faccio tutti i giorni: si sono sentiti come se fossero stati insultati in prima persona.

Mi sono reso conto che c’era sì la mia risposta automatica, per via di quello che ho subito e i vecchi meccanismi di difesa, ma che adesso io sono in una posizione di privilegio: sono in tour, sono libero e sono circondato da persone libere, ho il mio mondo per fare quello in cui credo e suscitare tolleranza attraverso la musica, i miei concerti. È un lusso, enorme.

Rifiutando di riconoscere gli insulti, avrei commesso un errore: avrei dimenticato il tredicenne che sono stato e avrei fatto male alle persone che non hanno quel lusso e quel privilegio. Io posso salire sul palco. Ma quando sei implume e quella parola ti riguarda, se vedi quel manifesto ma non trovi una risposta che ti faccia da scudo, allora per te significa che ti hanno abbandonato. Perdi le speranze e ti ritrovi ancora più debole. Non potevo permetterlo, proprio per le cose che sono cambiate nella mia vita: avrei lasciato solo me stesso e un sacco di altre persone. Non importa se hai 14 o 64 anni, quando vedi una cosa del genere la reazione è la stessa, perché ti tocca.

È il motivo per il quale ho deciso di mettere quell’immagine come foto del mio profilo su Twitter e Instagram. Era esattamente quello che mi avrebbe spaventato a 13 anni. Allora non avrei avuto il coraggio, non potevo averlo.Ho fatto l’opposto di quanto avrei fatto a scuola.

Per tutta la vita mi hanno chiamato così: io usavo quegli insulti, li trasformavo in musica, li mettevo nei miei disegni. Per la prima volta, sabato scorso, mi sono detto: perché non tirarli fuori e farne una bandiera da tenere alta sopra le teste di quelli che scrivono, che pensano così. Era la grandezza di Oscar Wilde: prendeva le ipocrisie e le buttava in faccia alla gente, a volte non c’è nulla di più appropriato dei gesti inappropriati! Per questo Wilde è uno dei miei Good Guys.

Avrei potuto scrivere cinquemila parole, mandarli a quel Paese, dire che non sarei mai tornato a Firenze (ma non per come sono io: io amo Firenze!), buttar giù uno sfogo paragonando l’omofobia al sessismo e al maschilismo. Ma con quella «dichiarazione visiva», con quel graffito diventato bandiera, ho fatto tutto questo senza essere violento o aggressivo, senza perdermi in prediche. Ed è stato bello vedere come un’immagine possa rivelarsi potente. Anche per mia mamma. Non ha detto molto, ma si è specchiata in questo episodio, perché da ragazza ha attraversato un periodo difficile. Lei non è mai stata risarcita per quello che ha passato: questa è stata una specie di compensazione ed è arrivata attraverso uno dei suoi figli. Mi ha guardato, ha stretto gli occhi, mi ha sorriso come qualcuno che finalmente trova pace.

La cosa più complicata adesso è capire come andare oltre quell’immagine, proprio per la sua forza. Un gruppo di persone ha voluto replicare il mio gesto: ha preso quella scritta, ci ha messo sotto la sua foto, ha aggiunto lo slogan «ti rompo il silenzio». Facebook ha bloccato i loro profili per 30 ore: è la dimostrazione di quanto quel termine sia ancora sensibile, duro. E dunque: se ti offendono, è giusto trasformare un insulto — che un insulto resta — in una bandiera? Sì, finché questo provoca una discussione costruttiva, finché aiuta le persone a riflettere su come un epiteto malpensato e superficiale possa far sentire gli altri. Ma quella parola è comunque una ferita. È ancora molto forte, ha un sacco di implicazioni negative e può fare male. Non accettiamola come una parola normale. Ma non facciamo più finta che non esista: sarebbe molto più pericoloso.

Mika


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