La mia prima lezione di Storia dell’arte medievale e moderna è stata lievemente traumatica. Mi ero dimenticata del suo inizio, così sono entrata nell’aula – G126, Cardinal Ferrari per chi conosce l’Università Cattolica di Milano – dalla porta posteriore con dieci minuti di ritardo. Ero una matricola e pure notevolmente timida, tutto mi sembrava strano e a volte anche terribile. Le luci erano spente, la scala posteriore occupata da studenti accampati sui gradini e c’era questo professore che parlava in un italiano dal forte accento straniero di opere che io non conoscevo assolutamente, anche se per una studentessa proveniente dalle scuole superiori la mia conoscenza dell’arte non era affatto male.
Amavo la Storia dell’arte grazie a una supplente avuta per alcuni mesi nel primo anno delle scuole superiori. È per lei che alcuni anni più tardi sarei finita a Lettere Moderne invece che ad Architettura. Ma quel giorno ho pensato che forse la mia scelta era stata uno sbaglio. L’anno dopo, regolarmente in aula fin dal quarto d’ora accademico precedente la lezione, ho sentito Miklós Boskovits iniziare il suo corso. Due sole frasi, una riguardava il fatto che alcuni storici dell’arte tenevano corsi su argomenti di cui avevano già scritto, altri su argomenti di cui intendevano scrivere, e che lui apparteneva a questa seconda categoria (con tanti saluti alla possibilità di avere un libro di testo da studiare, anche se ricercare i vari saggi in biblioteca era impegnativo ma divertente), l’altra il fatto che alcuni storici dell’arte riuscivano a fare corsi anche senza l’ausilio delle immagini mentre altri non ne erano capaci, e che anche in questo caso lui apparteneva a quest’ultima categoria, quindi spegneva le luci e iniziava a commentare le diapositive. Ora mi viene da ridere e non posso non ripensare a lui, al suo modo di fare, con simpatia e ammirazione. Quanto all’accento straniero, io e gli altri studenti ci scherzavamo sopra, ma visto che Boskovits aveva lasciato l’Ungheria nel 1968 per trasferirsi in Italia il suo italiano era molto comprensibile. Era strano, ok, e fra di noi dicevamo scherzando chesto e chello, cercando di imitare la sua voce, o ridevamo quando, durante una gita a Venezia, ci diceva di usare il binacolo per vedere meglio i dettagli dei mosaici, ma entro poco tempo mi ero resa conto che quel professore era un grande. Mi spaventava un po’ all’inizio, agli esami aveva fama di essere molto severo, e lo era ma solo nel senso che voleva che i suoi studenti fossero preparati. Non faceva domande a trabocchetto, non metteva deliberatamente in difficoltà nessuno. Faceva tutto con competenza e passione, cose che si vedevano benissimo appena si riusciva a dare uno sguardo oltre alla sua aura di luminare e alla sua riservatezza, cortesia e forse anche un po’ di timidezza che lo faceva apparire un po’ chiuso, quasi distaccato. In fondo noi eravamo ben consapevoli di avere di fronte un grande, e questa consapevolezza spesso intimidisce un po’.
Un bel ritratto di Boskovits l’ho trovato qui: http://www.italiaoggi.it/giornali/Boskovits.
Un altro ricordo: http://www.infinitetracce.it/content/ricordo-di-mikl%C3%B3s-boskovits/92.
E ancora: http://www.arteconomy24.ilsole24ore.com/art/approfondimenti/2012-01-17/maestro-arte-vita-073824_PRN.php.
Un articolo un po’ più vecchio, scritto quando Boskovits era ancora vivo, si trova qui: http://www.arteconomy24.ilsole24ore.com/news/2007/12/20/48_A.php?uuid=22f4331e-aee2-11dc-8731-00000e25108c&DocRulesView=Libero.
Uno studioso straordinario, per me un professore straordinario anche se la prima volta che l’ho visto ne ero rimasta un po’ traumatizzata. Invece di lui ho bellissimi ricordi, dei viaggi di studio organizzati con l’Università che ci hanno consentito di ammirare una mostra non ancora aperta al pubblico a Pesaro, di entrare nello studio dei restauratori degli Uffizi di Firenze, di passeggiare nei sottotetti della Basilica di San Marco a Venezia e di rimanere volontariamente chiusi nella Cattedrale di Torcello in quell’ora in cui il custode era andato via per la pausa pranzo. Il suo nome apriva tutte le porte, solo a Tolentino gli hanno detto che avrebbero volentieri fatto salire lui sui ponteggi dei restauratori ma non noi, e così abbiamo ignorato il Cappellone di San Nicola. Ma anche al di fuori del tradizionale viaggio incentrato sulle opere su cui avremmo fatto l’esame era sempre disponibile, in un’occasione ha fissato un appuntamento a Firenze con tutti coloro che volevano vedere una mostra sul Caravaggio insieme a lui, in un’altra ha organizzato un viaggio a Lugano per vedere la collezione Thyssen-Bornemisza poco prima del suo trasferimento in Spagna. Non erano viaggi necessari per gli esami, non era assolutamente obbligato a farli ma li ha fatti perché amava l’arte e voleva trasmetterci tutta la sua passione. Nel mio caso impresa riuscita, amavo l’arte già prima delle sue lezioni ma se il periodo che preferisco è quello dell’arte toscana di tardo Medioevo-inizio Rinascimento il merito è suo. Spiegava benissimo, con passione, era sempre chiaro e interessante, e i suoi articoli erano dello stesso tipo, era sempre un piacere leggerli. Lo è ancora.
Non ho mai seguito i suoi seminari, mi intimoriva troppo, e ora me ne dispiace. Quando ho smesso di avere di lui una soggezione eccessiva avevo esaurito gli esami della sua materia, ho iniziato a vederlo come una persona e non solo come quel professore coltissimo che era un po’ troppo tardi. Il merito di averlo visto come persona è suo, l’ultima volta che mi sono presentata davanti a lui per un esame ha commentato che ero una vecchia conoscenza e questa semplice frase mi ha fatta rilassare. Tenete presente che io ero il tipo da cinque minuti di risata isterica all’inizio di un esame in cui alla fine ho preso 29 (e scommetto che il professor Paolo Bellini, impegnato nel frattempo a passarsi la mano preoccupato nei radi capelli, ricorda ancora la scena), che sono stata capace di approssimare una data (ho detto che l’incisore Pietro Testa era morto intorno al 1650 quando sapevo benissimo che era morto proprio nel 1650) che conoscevo e che ho esitato nel dire il nome della Basilica di San Pietro (!) a causa di un momentaneo lapsus in un esame sull’architettura del Rinascimento. Perciò ogni esame era una tortura, anche se conoscevo benissimo la materia e magari l’amavo pure.
Paolo Uccello, Battaglia di San Romano, Intervento decisivo al fianco dei Fiorentini di Michele Attendolo, Parigi, Louvre.
Bene, con quella frase Boskovits mi ha fatta sentire a casa e non in un esame, una bella differenza. E poi, con la prima immagine, mi sono rilassata del tutto. Gli esami partivano sempre dalle diapositive. Ce ne faceva vedere una a caso delle 200-250 di cui era costituito il corso e noi per prima cosa dovevamo individuare artista e soggetto, poi iniziavamo a parlarne. A me era capitata una delle tre tavole della Battaglia di San Romano di Paolo Uccello, quella del Louvre o quella della National Gallery di Londra, non lo ricordo più, certo non quella degli Uffizi. Paolo Uccello. Sapete quanto mi piace questo artista, vero? Il mio avatar, da sempre, è il San Giorgio e il drago di Paolo Uccello, versione National Gallery di Londra, opera che amo fin dai tempi del Liceo. Come potevo sbagliare su di lui?
Come ha visto la diapositiva Boskovits ha commentato che quella non era un’immagine difficile da riconoscere, io mi sono dichiarata d’accordo e ho iniziato a parlare senza dire di cosa si trattasse. Non ho citato né l’artista né il soggetto, almeno non in un primo momento, anche se all’interno del discorso i due nomi – e molti altri, insieme a date questa volte corrette e precise e non approssimate – li ho fatti. Semplicemente era un’immagine così famosa che mi sembrava un insulto all’intelligenza, la sua come la mia, supporre che ci fosse davvero bisogno di dire che opera fosse quella.
Quando è stato soddisfatto di quel che gli ho detto ha cambiato immagine, e ha commentato che quella che mi trovavo davanti in quel momento era ancora più famosa. Ancora una volta io mi sono dichiarata d’accordo con lui e ancora una volta ho iniziato a parlare dell’opera senza citare soggetto e artista. Ma come avrei potuto dire che quella era la Cacciata dal Paradiso terrestre affrescata da Masaccio nella Cappella Brancacci senza apparire banale? Meglio ignorare l’ovvio e parlare delle cose più importanti. Davvero, se c’è un esame in cui mi sono divertita è stato quello. Ero rilassata, parlavo di cose che amavo, non mi sembrava più un esame ma una piacevole conversazione con qualcuno più esperto di me che mi aveva guidata nella scoperta di quei capolavori. Se non mi ha dato la lode è stato solo perché dopo aver citato un niello di Maso Finiguerra come fonte di ispirazione per un’opera di Francesco di Giorgio Martini non sono stata capace di dirgli cos’altro avesse fatto il Finiguerra nella sua carriera. Appena tornata a casa ho controllato e ho scoperto che aveva lavorato al fianco di Lorenzo Ghiberti alle porte del Battistero di Firenze. Informazione che non ho più dimenticato. L’unica cosa che mi spiace è di avergli dato una risposta non proprio corretta, e che lui non poteva sapere che in quel momento ero ricaduta per un secondo nelle mie solite sciocchezze.
Fra i testi integrativi che doveva leggere chi biennalizzava o triennalizzava il corso – per me era la triennalizzazione – c’era Due dipinti, la filologia e un nome di Federico Zeri. Lui mi ha chiesto se quel libro mi era piaciuto e io ho risposto “abbastanza”. Abbastanza? Ma se lo avevo amato! Perché a volte ho in dono di banalizzare i miei sentimenti, come se mi vergognassi di mostrarli? Ora molto meno di allora, ma davvero questa tendenza a cancellarmi mi ha creato non pochi problemi.
Il 26 luglio del 1935 a Budapest nasceva Miklós Boskovits. È stato un grande storico dell’arte e una grande persona e quando, pochi mesi fa, ho fatto una ricerca su di lui perché lo reputo il miglior insegnante che abbia mai avuto e volevo sapere cosa stesse facendo, sono stata molto dispiaciuta nell’apprendere della sua morte. Ce ne vorrebbero di più di persone come lui.