Milano Film Festival 2014: “Comandante” di Enrico Maisto

Creato il 10 settembre 2014 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

Anno: 2014

Durata: 70′

Genere: Documenatario

Nazionalità: Italia

Regia: Enrico Maisto

Il documentario Comandante, opera prima del giovane regista Enrico Maisto e presentato all’edizione 2014 del Milano Film Festival è uno dei rari tentativi dei ventenni italiani di approfondire e comprendere il fenomeno della lotta armata italiana negli anni ’70 e ’80. L’occasione che innesca questa indagine è l’amicizia tra il padre del regista, di professione magistrato di sorveglianza, e Felice, militante di Lotta continua. Negli anni di piombo i due diventano amici perché entrambi frequentano la trattoria “Il doppio mulino” di Milano. Felice viene a sapere che qualcuno ha intenzione di uccidere il giudice Maisto che in quegli anni si distingue per il suo impegno democratico all’interno della magistratura. Per la lettura politica che ne davano alcuni gruppi sovversivi, come Prima linea, sono questi i magistrati da colpire in quanto rappresentano il tentativo di rendere accettabile un sistema che, nella loro analisi, è intrinsecamente inaccettabile.  Felice interviene in quella elaborazione, dissuadendoli dal loro proposito. Il regista, anche operatore e voce narrante, conduce la sua analisi con semplicità ed estrema sobrietà di mezzi tecnici. Ma la ristrettezza produttiva è tutt’uno con la freschezza ed onestà del suo approccio. Il regista non ha una visione predefinita della lotta armata, che rappresenta una sorta di evento remotissimo e quasi incomprensibile. Il punto di vista primario che viene assunto è il tema umanissimo del valore della vita umana. Parlando con Felice, prende atto della versione militante di chi fiancheggiava e sosteneva, almeno moralmente, la lotta armata. Comprende che alla basa v’erano delle rivendicazioni di uguaglianza, diritti e libertà che, a vario titolo, sono parzialmente condivise sia da Felice sia da suo padre. Eppure i due, sebbene amici, sono sui due lati della barricata e questa opposizione sembra un dato irriducibile che meritava di essere indagato. Dal punto di vista politico non può dirsi che quest’indagine abbia portato degli elementi di originalità. Felice è un militante di base e il suo punto di vista non si pone l’obiettivo di delineare un sistema contrapposto che si ponga allo stesso livello di astrazione del sistema statuale a cui appartiene il magistrato, padre del regista. Fortunatamente il documentario riesce ad incardinarsi sul piano della relazione umana, sia quella amicale tra il militante e il giudice, sia quella tra padre e figlio. L’indagine sui sentimenti è sicuramente premiante perché i protagonisti si offrono con generosità e trasparenza.

L’elaborazione di un’azione rivoluzionaria si pone, per costruzione, su un piano diverso e spesso non riconciliabile con la dimensione della morale individuale a cui il documentario si rivolge per ottenere una chiave di lettura del fenomeno politico. Nella storia umana rivoluzionare o difendere un sistema solitamente comporta la commissione di azioni disumane, di compromessi imprevedibili e di errori imperdonabili. Nei momenti di cuspide del cambiamento sociale assistiamo ad una sorta di scissione tra etica politica e morale individuale, tipica dello stato di guerra che si innesca in tali fasi. Si pensi alla frase con cui Curcio rivendicò l’uccisione di Moro: “Ecco perché noi sosteniamo che l’atto di giustizia rivoluzionaria esercitato dalle Brigate Rosse nei confronti del criminale politico Aldo Moro, è il più alto atto di umanità possibile per i proletari comunisti e rivoluzionari, in questa società divisa in classi“ o alla frase con cui Cossiga spiegò la sua strategia controrivoluzionaria: “Il consenso si forma sulla paura, non verso le forze di polizia, ma verso i manifestanti. L’ideale sarebbe che di queste manifestazioni fosse vittima un passante, meglio come ho già detto un vecchio, una donna o un bambino , rimanendo ferito da qualche colpo di arma da fuoco sparato dai dimostranti: basterebbe una ferita lieve, ma meglio sarebbe se fosse grave, ma senza pericolo per la vita. E solo dopo che la situazione si aggravasse e colonne di studenti con militanti dei centri sociali, al canto di ”Bella ciao”, devastassero strade, negozi, infrastrutture pubbliche e aggredissero forze di polizia in tenuta ordinaria e non antisommossa e ferissero qualcuno di loro, anche uccidendolo, farei intervenire massicciamente e pesantemente le forze dell’ordine contro i manifestanti, ma senza arrestare nessuno”.

La storia ha già emesso le sue sentenze.  Resta il compito di capire.

Pasquale D’Aiello


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