a cura di Salvatore d’Angelo
Posto qui questo bel canto civile di Giuseppe Limone, filosofo e poeta. Il 2011 è l’anno del 150° anniversario dell’Unità di questo nostro scassatissimo ( e vitale) Paese. A proposito di festività celebrativa del 17 Marzo e del pessimo esempio che sulla questione stanno dando i politici di palazzo, se auguri sono a farsi, per quel che mi riguarda credo vadano fatti a tutto il Paese, che fatica e essere Nazione. Un augurio che non faccia risuonare ancora il grido dantesco “Ahi serva Italia, di dolore ostello, nave sanza nocchiero in gran tempesta, non donna di provincie, ma bordello” (Purgatorio, Canto VI vv.76-78), che invece possa servire ad avviare un dibattito, civile e in profondità, su di noi in quanto Italiani, su di noi in quanto aggregato di territori, di culture e di accenti dialettali – la nostra grande ricchezza – come ebbero la lungimiranza di capire i padri costituenti nel 1946-48. Un dibattito sui ritardi nell’attuazione di alcuni dettami costituzionali ( le Regioni, previste nella Costituzione, furono avviate solo 25 anni dopo) e sull’ inattuazione di altre e fondamentali parti. Con l’augurio che vada in profondità sugli aspetti peggiori del nostro carattere e che si possa addivenire a proposte condivise, per un nuovo assetto costituzionale, politico, amministrativo, frutto del concorso di idee di tutti i territori, alla pari, senza furberie albertosordiste. Auguri di cuore a noi tutti e al nostro Paese. (Salvatore D’Angelo)
MILANO NON ESISTE
di Giuseppe Limone
a Dante Maffia
Salirono, Dante, dal Sud,
a metà del secolo breve, uomini scuri.
Portavano sudori e ricordi
come carte vetrate sul cuore.
Salirono come tizzoni
su andirivieni di treni
per dar pane alla speranza
e radi varchi di luce alle dita
che coprivano il volto per la fame.
Salivano
come bestiame in cerca di pascoli
che lasciano mari caldi e cieli feriti.
Ruzzolarono da sud a nord
nudi uomini in fila,
italiani emigrati in Italia,
lungo uno stivale troppo lungo che pur era comune.
Sapevano
che la fame non può attendere,
che la vita non ha rivincite,
che il caldo degli affetti brucia
e che le radici non si lasciano sui treni.
Gli avevano detto
che anche al Nord le stelle tremano di notte
se qualcuno le guarda
e che la patria è una sola.
Scoprirono
che si può lavorare senza vivere,
che la nebbia ti può sedere dentro,
che si può essere attaccati a una macina
come muli bendati
e che si può imparare a star zitti
perché si è persa l’anima.
Trovarono
un odore marcio di strade
e cieli troppo stretti
in cui si accorciava il cuore.
Ma non persero la fede
nella lungimiranza dei semi
perché è un vizio irresistibile la speranza.
Disfecero
le proprie in altre vite
aprendo solchi a donne e a bambini e a tempi nuovi.
Amarono
l’aquilone che nel vento va a sud
e non rinunciarono mai al filo che lo tiene
e seminarono daccapo l’idea d’una patria.
E il miracolo fu,
come in un nuovo fiat della nazione.
Ma Milano non esiste, Maffìa, e nessun Nord può esistere
se una terra dimentica il sangue
di chi portò altra terra ai suoi raccolti
sciorinando i propri sogni in volute di fumo e smog.
Milano non esiste
se una terra perde memoria e si fa segreteria d’un’officina.
Milano non esiste
se uno stivale si spezza
per aver scordato il corpo
che gli dava vita. Piccoli uomini
salirono in nome dei figli,
ridiscesero alla fine
in nome dei padri. Lasciavano
ricchezze, discendenti e memorie
nelle stive della nazione e la speranza
di aver dato una patria al perdono.
Qui in Calabria
il tuo anziano uomo senza nome
attende ancora
ogni giorno alla piccola stazione
che torni la sua Letizia coi figli, che torni col treno
che portò lui giovane al Nord
spogliandolo di lui. Quell’uomo, Dante,
è tutti noi, ha un buco nell’anima
e non sa di essere immortale.
Egli attende
i suoi semi lontani
in cui si trapiantò spezzato,
perché un uomo non ha patria
se i figli persero le viscere dei padri
e perché un popolo non ha più storia
se trancia la radice.
Qui il tuo uomo
attende, Maffìa, in Calabria
i volti che gli mancano per sempre
in un’attesa di treni senza treni.
Perché il dolore è come la patria: grida come un sol uomo.
Supplica
l’orizzonte, in attesa del vento, del suo varco
improvviso, perché sempre
è un avanzo di bandiera il cuore mentre resta
a occhi aperti
nell’inguaribile sogno dell’abbraccio
che sa dell’ultima volta e della prima
nell’incrociarsi di speranze fra i ritorni, come dita,
di chi, nonostante il vivere, è puro.
Napoli, 20/11/2010
Giuseppe Limone
giuseppelimone@tin.it