Si fa un gran parlare, e a ragione, dell’articolo scritto da Mario Calabresi e comparso sulla prima pagina de La Stampa ieri mattina. E non solo per la foto di Aylan, il bimbo siriano di tre anni annegato insieme alla madre e al fratello più grande mentre cercava di raggiungere Kos, la Grecia, l’Europa, la salvezza.
Chissà se qualcuno gli aveva spiegato che quell’Europa che tanto disperatamente stavano cercando di raggiungere era, insieme al resto dell’Occidente, in larga parte corresponsabile del dramma che da anni si sta consumando sul suolo siriano.
Quando sui libri di Storia, a scuola e poi all’Università, mi fecero studiare la presa di potere del nazismo e la sua avanzata in Europa, il punto fondamentale dal quale ogni studente doveva partire era l’immobilità degli stati europei e la loro impotenza, il loro essere troppo deboli, troppo divisi, troppo distanti, nelle loro differenti e personali posizioni, per riuscire ad affrontare con successo quell’ombra che si stava allungando su di loro e che li minacciava tutti, nessuno escluso.
L’Europa unita, questo Leviatano voluto da quegli stessi Stati che avevano giurato che non sarebbero mai più stati deboli, impotenti, immobili, divisi e distanti, nelle loro differenti e personali posizioni, al cospetto di chi ne avesse minacciato i principi fondanti (quell’uguaglianza, quella fratellanza e quella libertà su cui a fatica ci siamo costruiti) oggi come ieri continua a non voler prendersi il carico di responsabilità che dovrebbe invece finalmente avere la maturità di assumersi.
La lezione che Libia e Serbia ci stanno dando è in fondo di una chiarezza disarmante: dopo aver bombardato la Libia per accelerare la caduta del sanguinario dittatore che per quarant’anni l’aveva governata, l’abbiamo abbandonata in balia di forze che solo in pochi avrebbero saputo gestire. Quando questo avviene (quando cioè si lascia in balia di se stesso un paese che per decenni ha vissuto sotto una dittatura) il risultato che si ottiene è, nella migliore delle ipotesi, l’avvento di un nuovo dittatore e, nella peggiore, il caos vero e proprio, seguito subito dopo dall’emergere di frange ancora più estremiste di quelle rappresentate dal dittatore uscente.
La Libia, tra l’altro – e questo non depone a favore delle democrazie occidentali – è stata bombardata e abbandonata in un periodo storico tutto particolare, e cioè nel momento in cui l’ISIS si stava spostando dal Medio Oriente verso il Nord Africa ed era quindi alla cerca di territori nuovi e instabili in cui poter penetrare. Nel frattempo la Siria bruciava. Immagino (spero) che tutti si ricordino bene gli appelli fatti a Europa, Stati Uniti e Russia affinché intervenissero in Siria prima che la situazione degenerasse. I politici del tempo (che poi sono più o meno gli stessi di oggi) preferirono attendere. Le posizioni (soprattutto quelle della Russia) erano contrastanti. Il lavoro sporco, alla fine, come sempre negli ultimi anni, fu lasciato ai Curdi. Che ci pensassero loro. Che facessero loro quello che né l’Europa né l’America né tantomeno la Russia si sentivano in dovere di fare.
Ma allora, in sintesi, cosa abbiamo qui?
Abbiamo un paese, la Siria, svuotato della sua classe media, in larga misura laica, la spina dorsale che assicurava stabilità, buon senso e futuro in un paese che non ne ha più. Poi abbiamo un altro paese, la Libia, che a ben guardare assomiglia sempre più alla Siria di alcuni anni fa, con la differenza che le tribù che abitano nel deserto intorno a Tripoli sembrano saper resistere meglio all’avanzata dell’ISIS. Stando così le cose, però, e molti osservatori internazionali su questo aspetto concordano, è solo questione di tempo e anche la Libia cadrà.
Poi cosa abbiamo? Abbiamo lo Stato Islamico, abbiamo il cosiddetto Califfato di Abu Bakr al-Baghdadi, che in questi giorni compie un anno e mezzo di vita e che quindi ha al proprio interno bambini, madri, padri e sistemi educativi che stanno crescendo una nuova generazione d’infanti nella culla del più bieco estremismo. Credo – mi domando se ci sia qualcuno che non concordi – che anche gli aspetti più insopportabili dell’odiosa follia nazista reggano a fatica il confronto con le immagini delle barbarie (non solo perpetrate ai danni di bambini, ma fatte perpetrare dai bambini stessi) messe in moto dalla macchina militare e propagandistica dell’ISIS. L’ISIS stesso, tra l’altro, ha dichiarato più volte di non avere alcuna intenzione di fermarsi: il suo obiettivo, oramai si sa, è l’annientamento degli infedeli in Europa e nel Mondo.
Infine abbiamo la classe politica che da anni governa l’Europa.
Abbiamo le Merkel, gli Hollande, i Berlusconi prima e i Renzi poi.
Abbiamo nomi che – mi dispiace doverlo dire perché come cittadino sono corresponsabile della scarsa statura politica di chi ci amministra – verranno giudicati duramente e senza appello dalla Storia che loro stessi stanno ad oggi tragicamente producendo e le conseguenze delle cui azioni sono state pagate ieri da un bambino siriano su di una spiaggia turca, e dovranno essere affrontate domani dai nostri figli, tutti – come settant’anni fa dagli stati di cui fanno parte -, nessuno escluso.
L’Europa muore, fa bene Calabresi a gridarcelo dalla prima pagina del suo giornale, perché i problemi, quando non sono affrontati, vengono a bussare alla porta di chi per anni ha preferito ignorarli.
E come si fa a non sentire il suono di milioni di nocche che ti bussano alla porta di casa?
La Merkel, abilissima a gestire il proprio orticello, ha dimostrato enormi limiti nel passaggio da leader nazionale a grande protagonista internazionale. Hollande ha, in casa, le stesse difficoltà che la Merkel dimostra fuori dai confini tedeschi. Poi c’è Renzi, che se davvero è cresciuto nutrendosi dei padri putativi che ogni tanto ama citare, dovrebbe fare quel salto qualitativo (come politico, come statista, come uomo) che da mesi annuncia: distolga l’occhio dai sondaggi e parli e agisca col coraggio che ogni uomo politico che aspiri a restare deve trovare, suscitare e soprattutto nutrire nelle coscienze di chi lo sta ascoltando.
I muri non hanno mai fermato le persone e gli infissi delle porte alla fine cedono, e giustamente, se dall’altra parte stanno bussando in troppi e da troppo tempo.
La Storia, oggi come settant’anni fa, ci sta parlando.
C’è da prendere delle decisioni e da farlo in fretta, e consci degli errori commessi. C’è da fermare la guerra in Siria e combattere l’Isis in Nord Africa e in Medio Oriente. Ricacciarlo nell’entroterra iraqueno dal quale gli abbiamo malauguratamente (abbiamo responsabilità anche lì) permesso di fuoriuscire.
C’è da dimostrarsi all’altezza del compito storico che ci è stato affidato.
Mettiamocelo bene in testa, prima che anche le nostre, di nocche, comincino a bussare alle porte di qualcuno che dall’altra parte si rifiuterà di aprire.
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