Regista: David Fincher
Attori: Daniel Craig, Rooney Mara, Christopher Plummer
Paese: USA
Ad un regista come David Fincher non gli si può negare la capacità di dar ritmo alle sue pellicole. È una delle principali ragioni per le quali i suoi film difficilmente risultano poco digeribili, anche nel caso in cui nel complesso non convincano del tutto. Del resto è riuscito a rendere avvincente la storia di un nerd alle prese con beghe legali, la qual cosa è già sufficiente a renderlo difficile da criticare. Si è mostrato capace anche di cambi efficaci di registro, come quando ha affrontato quello che sulla carta è un thriller, “Zodiac”, rendendolo un film introspettivo dai ritmi decisamente più lenti rispetto a quelli ai quali ci aveva abituati. La storia di un giornalista (Daniel Craig) alle prese, dopo aver diffamato un uomo d'affari, con quella che è probabilmente la fine della sua carriera, che viene ingaggiato per le sue doti investigative da un uomo tormentato da un omicidio irrisolto di 40 anni prima, dovrebbe quindi per Fincher esser facile da rendere quanto per chiunque fare due passi all'aperto. Se a ciò si aggiunge che l'altra protagonista della pellicola è una ragazza schiva, atipica, esteticamente esuberante e che di lavoro fa l'hacker, allora “Millennium” dovrebbe risultare riuscito ancor prima di cominciare. E invece, contro ogni aspettativa, no.
Che ci sia qualcosa che non va lo si avverte già durante i titoli di testa. Non si capisce se la produzione abbia deciso di accattivarsi lo spettatore con trovate modaiole, se Fincher abbia avuto voce in capitolo e sia stato assalito dalle sue origini professionali o se la presenza di Craig abbia confuso tutti facendo credere loro di star girando uno dei seguiti di James Bond, fatto sta che il videoclip che apre il film è davvero senza senso alcuno. Nei vari James Bond è un marchio di fabbrica, sì, ma è anche un prodotto diverso, che si presta infinitamente di più ad una trovata simile; aprire però così una pellicola ben più seriosa e realistica come “Millunnium” è tendenzialmente improponibile. Comunque sono pur sempre solo i titoli di testa, quindi si ascolta con pazienza per due minuti e mezzo la versione di Karen O di “Immigrant Song” dei Led Zeppelin, accompagnata da simpatiche immagini computerizzate, e poi finalmente comincia il film.
La mano di Fincher è evidente, in special modo nella parte iniziale. Come si scriveva il regista statunitense sa come dare ritmo ad un racconto filmico ed infatti è ciò che fa. In simbiosi col montaggio di Baxter/Wall gira e alterna sequenze brevi alle quali concede appena il tempo di informare lo spettatore su quanto accade, di introdurre attraverso le principali caratteristiche i personaggi. Il coinvolgimento è quindi lì ad un passo e tra i tentativi di distinguere e ricordare i vari nomi e quelli di delineare il quadro generale di quanto si sta guardando, ci si ritrova nella storia nel giro di poche sequenze. Se normalmente, tuttavia, si rivela tale scelta un punto di forza per un thriller simile, in questo caso no. Non si può, infatti, non tener conto della durata complessiva della pellicola, assai notevole, di quasi 160 minuti. Cominciare in quarta non si può in nessun caso risolvere in una chiusura in seconda, e restare in quarta per quasi tre ore è senza dubbio un'impresa; impresa che a colui che ha firmato “Seven” purtroppo non riesce e che, soprattutto, non sarebbe potuta riuscire. Non per presunte mancanze registiche, sia chiaro, ma perché la causa è da ricercare altrove; del resto, al contrario, Fincher non perde mai di vista il suo stile, non mostra incertezze e continua a dettare tempi mai troppo lenti e quindi tali da tenere sveglio lo spettatore. È quasi del tutto suo il merito se la noia non prende totalmente il sopravvento.
Il fatto però che non si imponga, la noia, in maniera definitiva, non significa certo che la pellicola riesca ad evitarla. Con l'andare delle sequenze, anzi, tende inesorabilmente, seppur con una certa calma, a farsi sentire. Come si è detto, però, la causa non è la regia. Allo stesso modo non lo è la restituzione filmica in fatto di luci e atmosfere, invero particolarmente suggestive, specie quando chiamate ad illuminare le già stupende ambientazioni nordiche; né in fatto di musiche e sonoro. Il problema è la sceneggiatura di Zaillian, che si dimentica di aver scritto robe tipo “American Gangster” e “Gangs of New York” e si ricorda invece di aver sceneggiato film mediocri come “The Interpreter”. Da un certo momento in poi l'interesse comincia a calare, l'intreccio tende a svelarsi attraverso snodi non particolarmente originali, né intriganti, e l'attenzione di Zaillan, ma più in generale di tutto il comparto tecnico, appare più concentrata sulla pubblicità occulta che sulla storia in sé; ce n'è infatti tantissima, dalla Coca-Cola, alla Wyborowa, dall'Ikea al Mac, ed è così palese che nemmeno Glauco nella seconda stagione di “Boris” riesce a far meglio. Non cerca di darsi uno spessore maggiore neanche con una qualche ricerca introspettiva, tanto che i personaggi svaniscono dalla memoria anche prima della fine del film. L'unica che resta impressa, seppur solo per qualche minuto in più, è Lisbeth (Rooney Mara), ovviamente. “Millennium” punta tutto sulla sua figura e finisce però per caricarla troppo, tanto che al termine tra frasette ad effetto e autocompiacimento un tanto al chilo, viene fuori una macchietta poco credibile e quasi fastidiosa, oltreché ben lontana dalle potenzialità insite in una figura così sofferente, intaccata ma ben lungi dall'essere debole.
La sensazione, al termine, è quella di aver visto un film-passatempo del tutto simile a quelli che passano generalmente in prima serata sulle reti nazionali. Non lascia nulla, anche perché ad un certo punto è lo spettatore a voler lasciare la sala, specie durante il tanto veloce quanto superfluo montaggio in chiusura. È il caso quindi di aspettare che lo trasmettano sul piccolo schermo.