Million Dollar Baby

Creato il 28 gennaio 2011 da Robydick

2004, Clint Eastwood.
Una ragazza d'infima famiglia, lavori umili, decide di sfondare nella boxe. Individua l'allenatore e alla fine ce la farà, ma l'incontro per il titolo ha un epilogo terribile....
Una storia da terza pagina? La solita "menata" di una vita meschina in cerca di riscatto? Un Rocky al femminile? Niente di più errato.
Nient'altro sul plot, è una storia drammatica e profonda fatta di fatica, determinazione, che va goduta appieno. Ci sono tanti ingredienti, per certi aspetti comuni a queste trame, però insisto e chiudo qua con una metafora: anche i piatti più squisiti della nostra amata cucina italiana sono fatti di pochi e semplici ingredienti, sta al cuoco saperli sapientemente amalgamare per produrre prelibatezze invece di mangime, e qua il cuoco è di prim'ordine. Il finale poi...
Passo con piacere la parola all'amico Zio Scriba (al secolo Nicola Pezzoli). Gli ho chiesto di onorare il blog della sua presenza, con un film che ha particolarmente apprezzato, e ha scelto questo.
Ci sono volte in cui l’Arte può essere così grande da prendere a calci in culo i tuoi pregiudizi (anche perché, probabilmente, è l’unica entità capace di farlo, motivo per cui i sistemi oppressivi che su pregiudizio e ignoranza si basano temono l’arte e gli artisti veri ancor più delle verità degli scienziati). Voglio dire: io avevo sempre provato istintivo disprezzo per il pugilato maschile, e trovato assurda e inconcepibile la semplice esistenza di quello femminile. Eppure, quanto ho voluto bene a questo film (collocato ora e per sempre nel mio più limpido e fulgido Olimpo) e ai suoi personaggi!

Quattro strameritatissimi Oscar, quattro stellette persino dal buon Mereghetti che a casa mia viene scherzosamente chiamato “lo Stitico” a causa della sua manica stretta, una regia di qualità, sapienza e sensibilità superiori, prove attoriali di livello stratosferico: un Clint Eastwood sublime, un Morgan Freeman al suo meglio, una Hilary Swank di cui innamorarsi disperatamente.

Ma è la storia a suonare vera, coinvolgente, commovente, toccante, al tempo stesso forte come un pugno e delicata come una carezza.

Come spesso ci ha abituati a fare, l’immenso Clint non manca di capovolgere i più consunti cliché, primo fra tutti la stucchevole ipocrisia del famiglismo disneyano, che continua a fare da indigeribile contorno a così tanti film odierni, come l’ultimo con George Clooney. Una storia di solitari alla deriva che si trovano e divengono a loro modo (e non certo facilmente, non certo da subito, anzi!) “famiglia” gli uni per gli altri, perché famiglia, al di là dei ruoli babbino-mammina-prole contrattualizzati e conformisti (che quando funzionano, per carità, vanno benissimo) altro non è che la vicinanza di chi ti vuole bene, come il burbero allenatore-manager Frankie Dunn (che ha una figlia biologica con cui ha rotto da anni) nei confronti della sua Mo Cùishle, struggente nome di battaglia da lui inventato per lei (senza rivelargliene il significato) che in Gaelico vuol dire “Mio Tesoro”, o anche “Mio sangue”. È lei, a sua volta zavorrata da una famiglia di mostri minus habens a metà fra gli Addams e i Parenti Serpenti di Monicelli (ai quali non interesserà altro che provare a sfruttarne l’improvvisa fama e ricchezza) a divenire per lui l’allieva, l’amica, la figlia da proteggere, nonché, forse, l’ultimo impossibile e indichiarabile amore senile.

Chi mi conosce e mi legge avrà però indovinato da subito quale sia l’argomento che mi fa davvero amare questo film, la sua intelligenza e il suo coraggio: questo argomento è la Dolce Morte, l’Eutanasia, qui affrontato in modo illuminato ma sofferto, tutt’altro che sommario, tutt’altro che programmatico e facilone. Perché staccare la spina non è certo cosa che si faccia in quattro e quattr’otto con l’assoluta certezza di aver deciso la cosa giusta senza nemmeno prima pensarci sopra. È un gesto terribile, terrificante, contro cui vorresti ribellarti, eppure, come saprebbe ben spiegarci il padre di Eluana Englaro, è soprattutto, nell’irreparabilità della condanna alla sofferenza iniqua e all’agonia senza dignità né speranza, il più dolorosamente sommo Atto d’Amore e di responsabilità che si possa immaginare compiuto da un essere umano nei confronti di un altro (come non riandare col pensiero al gesto di Pietà del “Grande Capo” indiano che in Qualcuno volò sul nido del cuculo soffoca con un cuscino il ribelle Nicholson lobotomizzato a tradimento?). Questa cosa il film, pur non essendo, come detto, un film ideologico, di quelli fatti a colpi di slogan trancianti e di teoremi indiscutibili, ce la mostra molto chiaramente. Al punto che vorrei tanto poterne ordinare la visione continuativa (diciamo almeno un migliaio di volte di seguito?) a quelle teste d’ortaggio bigotte che il 9 febbraio sfileranno “a favore” della vita vegetativa obbligatoria per tutti. Non chiamerò mai Mo Cùishle uno di voi, dannati idioti, come ho chiamato fra le lacrime la mia Maggie Fitgerald-Hilary Swank mentre scivolava via per sempre da questo nostro meraviglioso e spietato sogno di esistere.
Anche per me nell'Olimpo, inevitabilmente.

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