#Mind the gap: cronache di una palermitana a Londra

Creato il 02 aprile 2014 da Abattoir

- L’esercito delle nanny tristi -

A quanto pare, la schiavitù non è mai finita, ha solo mutato forma, per il resto è tutta lì in quelle facce tristi, rassegnate, in quelle dita che pigiano i tasti di un cellulare, unico contatto col mondo esterno.
Indefesse, lavorano dodici ore al giorno, forse di più, non pretendono niente, chinano sempre il capo, sorridono all’occorrenza.
Non hanno una casa loro, sono ospiti eterne e posano i corpi sconfitti e esausti su coltri altrui. Non possiedono nulla, men che meno il loro tempo.
Loro, i padroni, non usano più fruste, ma sorrisi melliflui e ordini perentori.
Quando le vedo tutte concentrate in un posto – un club esclusivo di cui loro non saranno mai membri, ad esempio – coi loro sguardi all’ingiù e le spalle curve, schiacciate da chissà quale peso, mi sembra di rivedermi: io sto diventando come loro, triste, vecchia e rassegnata. Ma io una via d’uscita ce l’ho. Io sono italiana, sono fortunata (scusate l’ironia), io posso diventare tutto quello che voglio, loro no. Loro sono e saranno sempre l’esercito delle nanny tristi.
Le donne filippine, da che mondo è mondo, sono colf e nanny. Non si sfugge al destino. A loro non tocca fare altro se non crescere i figli degli altri. Vite senza vita. Dopotutto, dal punto di vista dei padroni, a loro non manca nulla: un tetto sulla testa, cibo, soldi.  Tetto, cibo e soldi è il loro paradigma di vita.
Niente pretese, niente ferie improvvisate, niente malanni, niente nostalgie, niente piani presi senza consultare i padroni, anche se loro educatamente ti chiedono: “Did you plan to go out tonight?”. La risposta sarà sempre e solo: “No, I’ll stay in”.
Loro fuori a divertirsi e tu a casa a pensare al modo migliore per scappare. Ma per loro scappare sarà sempre l’ultima delle possibilità.
Loro non possono scappare, devono solo ringraziare, farsi in quattro e prevenire desideri, prendersi incombenze che non gli spettano e vedere passare i giorni, tutti uguali. In un mondo ideale, le donne filippine potrebbero avere una vita loro, una casa loro, un cane da passeggiare, un bagno caldo da fare, un camino d’accendere e un te da sorseggiare. Nel mondo reale, invece, trascinano invano le loro esistenze perchè devono mandare i soldi a casa. La mia collega un giorno mi disse: “Per loro questa è vita, nei loro Paesi sono costrette a fare lo stesso ma non vengono pagate”.
Vorrei tanto mostrarvi cos’è la vita, care ragazze, e no… non è essere schiave col conto in banca.

Se non si fosse capito, io ero una di loro. La mia vita somigliava più a quella loro che a quella di una nota sit-com che andava in onda anni fa, chiamata appunto “The nanny” (mi è capitato di riguardarla e credetemi, la mia vita non era neanche lontanamente vicina a quella della simpatica Francesca Cacace).
Dodici ore di indefesso lavoro.  Cinque giorni di asfissia. Sabato e domenica volavano via troppo presto e alla sera mi sentivo malissimo, con un peso sul cuore che mi schiacciava inesorabilmente.
Si può vivere così per tanto tempo? Quanto ancora potevo resistere? Mordersi il cuscino la notte e soffocare il pianto non poteva essere la soluzione.
Un giorno, un bel giorno, decido che io no, non avrei fatto parte di quella schiera. Un giorno presi coraggio e lasciai il lavoro. Un grande salto nel vuoto, ma mai mi sono sentita più libera.
Quelle valigie sulle scale erano il mio lasciapassare per una nuova vita, una vita che ancora doveva cominciare.

Ogni tanto ripenso a quelle ragazze, tristi e rassegnate, intrappolate in una vita che non è la loro.
Sorrido mesta e mi auguro che un giorno anche loro possano sognare di vivere.