Arrivo a Chioggia in corriera e faccio due passi in centro mentre aspetto il vaporetto. E' bella Chioggia, con le calli, i canali, i ponti in pietra d'Istria, le case rosse con i fronzoli bianchi. Sembra una piccola Venezia, anche se qui ci passano le auto. Non ho visto molti turisti, a parte un paio di nordici che si facevano uno spritz. Mi siedo a poppa, all'aperto, ad osservare il legno marcio delle briccole, la superficie lievemente increspata della laguna e gli isolotti ruvidi, ricoperti di un'ispida barbetta verde, con la brezza che mi massaggia la faccia. A Pellestrina tutti salgono nell'autobus diretto al Lido, utilizzando il biglietto combinato vaporetto-bus. Io ho speso sessanta centesimi in più e mi sono assicurato due tragitti separati: l'autobus posso così prenderlo quando e dove voglio. Avrei anche potuto noleggiare una bici; lo so, è veloce e il percorso lungo i murazzi, tra mare e laguna, è suggestivo, ma oggi non sono quel tipo di visitatore, non ho voglia di sfrecciare tra i paesini, devo insinuarmi tra le calli, restare impalato in un angolo, osservare la gente, le case, annusare i profumi incrociati provenienti da acqua e cucine: il mio mezzo di locomozione, economico e flessibile, è di nuovo un paio di scarpe di gomma.
Cammino per circa tre chilometri tra le contrade di Pellestrina, a sud dell'omonima isola, una striscia lunga e stretta che protegge la laguna dal sale e dalle onde del mare. Sembra un sestiere della città dei dogi, i cui campanili si scorgono a poca distanza, con le stesse calli, i campi, le fondamenta con gli spigoli di pietra che finiscono in acqua (∗). L'atmosfera è persino più magica di quella che speravo di trovare, pur temendo che probabilmente sarei rimasto deluso. Mi infilo tra le schiere opposte di facciate colorate, mi faccio risucchiare e poi sputare dai sotoporteghi, sbuco in un campo, faccio tre passi verso il suo centro, mi perdo a contemplare quelle composizioni di poligoni colorati e quando esco dal trance torno indietro.
A Pellestrina, in questo giorno feriale, all'ora di pranzo, non ci sono turisti in giro. Anzi, non c'è proprio nessuno, non c'è nemmeno un negozio aperto. Ho fame e cerco un bacaro per mangiare uno spuntino e bermi un'ombra ma non ne trovo. In uno spiazzo con vista sulla laguna mi si avvicina un avvinazzato, con gli abiti sgualciti, i piedi scalzi e paonazzi che spaperazzano quasi palmati sulla pietra fredda, un bicchiere in mano e su un davanzale un fiasco da due litri di rosso, pieno (o vuoto, o meglio ancora svuotato) per metà. "Sai qual è il problema?" Lo osservo per fissare nella mente quell'immagine bizzarra, una curiosità che lui mette in relazione alla domanda che mi ha posto. "Che non ghe ze più la carità cristiana!" mi spiega in dialetto veneziano. I veneziani quando parlano sembrano sempre brilli, poi spesso scopri che in effetti lo sono e ti chiedi se oltre a quella che hai sempre ascoltato esiste anche una cadenza veneziana sobria. Mentre mi allontano ripete quel suo ammonimento, quella sentenza bacchico-savonarolesca. Quando ha smesso mi volto e lo trovo lì a osservarmi. Non appena mi vede in faccia riprende a urlare. Sembra proprio posseduto dallo spirito del predicatore fiorentino, spero non lo mettano al rogo per cucinare un brasato al merlot.
Poco più avanti dei pescatori chiacchierano maneggiando delle reti e un vecchietto seduto sul parapetto che dà sulla laguna canta, succhiando di tanto in tanto una pipa da ufficiale di baleniera ottocentesco. Mi osserva, io alzo una mano per salutarlo, mi risponde sventolando la pipa senza smettere di cantare, come un gondoliere finto da film americano.
Il paese finisce ai cantieri De Poli, dove sotto degli enormi, rossi carroponte vengono riparati i vaporetti dell'Actv. Ritorno ai murazzi e l'autobus per il Lido mi sfreccia davanti. Devo aspettare mezzora prima che ne passi un altro. Tiro fuori Yehoshua dalla borsa e mi volto a leggerlo verso l'Adriatico. Il tempo non può che passare in fretta se uno fa così.
All'estremità settentrionale di Pellestrina l'autobus sale su un traghetto e pochi minuti più tardi sbarca sull'isola del Lido, anche questa lunga e stretta, a fare da spartiacque tra laguna e mare. Sulla mappa la località di Malamocco è segnata come attrazione turistica. Il biglietto dura settantacinque minuti, decido quindi di fermarmi a visitarla. Vengo accolto da un'altra Venezia in miniatura e anche qui non vi è nessun turista: mi aggiro solitario tra le solite case colorate, i corsi d'acqua, il campo con la chiesa. Questa volta però trovo un bacaro, faccio in tempo a mangiare una mozzarella in carrozza e a bermi un rosso prima di risalire in autobus. Arrivato al capolinea decido di lasciare la zona del Casinò e del Palazzo del Cinema per la prossima visita e mi imbarco sul vaporetto per la Ferrovia. Il binario chiude questo itinerario un po' insolito incuneandosi tra i condomini moderni di Mestre e le fabbriche di Marghera. E' un fascino un po' sinistro, una forma vagamente postmoderna di romanticismo. Lo scorcio ti avvolge il cuore con la carta stagnola, qualcuno può addirittura dire che fa schifo. E forse ha anche ragione. Ma questo era un viaggio sullo strato esterno di Venezia. Una passeggiata del moscerino sulla pelle della città. Non poteva far altro che finire così.
(∗) Per la toponomastica veneziana date un'occhiata qui