(Mini) Viaggio in Italia (del nord est)

Creato il 28 ottobre 2013 da Elettra

L’ultima volta che sono stata a Padova indossavo una gonna a fiori lunga e salutai i miei per un’oretta perché un amico da Salerno mi aveva detto che c’era Casarini (!) che aveva indetto un sit-in davanti alla facoltà di Scienze Politiche.
Ci sono tornata dopo parecchi anni con un bel trench con la cintura legata dietro la schiena, con i tacchi che risuonano sotto i portici intorno piazza delle Erbe. Il tempo è grigio e una foschia leggera avvolge le strade non appena diminuiscono le persone e si spengono le luci, la stessa foschia che diventa più densa in una Prato della Valle deserta e umida, tagliata in due solo dai fari delle biciclette che ci sorpassano e annientano per qualche momento il rumore dei tacchi. In centro negozi uguali in tutto il mondo si alternano a palazzi bellissimi e cortili perfettamente quadrati mentre i camerieri sorridenti per contratto aprono le porte del Caffè Pedrocchi “Buonasera signore, benvenuto”. Il vociare per strada è sommesso e quasi impercettibile, non riesco ad entrare nelle vite di nessuno, solo di due ragazzi all’angolo della strada che discutono su dove andare a prendere lo spritz. La sera in provincia scorre fastidiosamente lenta e dopo cena guardo dalla finestra di un albergo uguale a tanti altri, la foschia grigia che avvolge i palazzi, che sembra fuoco fatuo.

Mi vesto bene per andare a Venezia, non che mi vesta male di solito, ma di proposito mi vesto meglio. Non lo so perché o meglio lo so. E’ Venezia e per me è un po’ sacra come Parigi. E’ Venezia e c’è la Biennale e io non voglio essere una ragazza sciatta che va alla Biennale e si siede a terra stanca per i troppi padiglioni. Voglio essere una che gira per Venezia e si ricorda tutto senza mappa (ed effettivamente è così) senza fare sembrare la cosa troppo impegnativa, figa ma con naturalezza, che se sono stanca mi fermo a bere uno spritz dove so io. Mentre penso a tutte queste cose stupide sono già in mare aperto e mi rendo conto che le Grandi Navi (e tutto quello che metaforicamente rappresentano) resteranno esattamente dove sono se quasi nessuna delle persone intorno si accorge dei contorni vividissimi di Venezia che si stagliano sulla Laguna grigio perla come il cielo, impegnate come sono a fotografare con ammirazione i dieci e più piani di una nave crociera ferma in porto.
La strada è inversa questa volta e parto direttamente dai Giardini pieni di bambini usciti da scuola e di persone ben vestite con impermeabili e giacche spigate a fare la fila per l’ingresso. Le altre volte in cui sono stata a Venezia il caldo è sempre stato un po’ appiccicoso e fastidioso e l’umidità si insinuava dappertutto, dai capelli ai piedi; questa volta, nonostante il cielo grigio, la foschia e un sole giallo pallido, il clima è perfetto: né freddo, né caldo, i capelli restano come erano e soprattutto le foglie a terra sono color terra bruciata intensissimo e sembrano tante stelline di carta velina ritagliate a mano da qualcuno. Castello ancora una volta è il posto che più amo di questa città, dove il fatto di essere circondati da e sopra l’acqua sembra una cosa naturale e normale. Le interazioni sociali sono come quelle di tutto il mondo e ancora una volta tre o quattro veneziani in un campo, fanno casino come tre o quattro napoletani in una piazzetta. Nel tardo pomeriggio inizio a camminare senza meta anche se poi mi ritrovo sempre dove sapevo di voler andare, a risentire un profumo, a rivedere un volto, a rivivere una scena. Da Riva degli Schiavoni riprendo il vaporetto per l’insulsa terraferma, insieme ad una sposa portoricana con famiglia che va a sposarsi a Santa Maria della Salute. Incrocio gli sguardi delle persone affacciate sul lato di mare del Guggenheim e guardo con un po’ di compassione le belle donne in taxi che non alzano mai lo sguardo ai ponti e ai palazzi. Non bisogna mai abituarsi alla bellezza.

Poi c’è stata Ferrara, per poche ore, così placida eppure per niente ferma. Sarà stata la domenica mattina, il primo sole vero dopo due giorni o l’Emilia, la C di noci che sembra una zeta più sibilante, le persone davanti al duomo e il duomo con la doppia porta e il buio in mezzo, per fa sembrare gli stucchi dell’interno ancora più brillanti di quello che sono. Cammino e mi godo l’atmosfera rilassata pre pranzo, di coppie che camminano e parlano conducendo le biciclette a mano, di bambini che cavalcano i leoni del duomo in attesa di una foto dei genitori, di signore anziane ingioiellate che portano fiori in una busta e fumano sigarette sottili. Le osterie iniziano a popolarsi, alcuni fanno ancora l’aperitivo, altri hanno già ordinato il primo. Nel fossato del castello appare una barchetta, due fidanzati si baciano e si lasciano fotografare da noi al di là del muro di cinta. Poi la barchetta scompare oltre il ponte levatoio, mi giro di spalle e la strada poco prima piene di persone, è in un attimo vuota. Li ritrovo tutti seduti a mangiare e a bere. Ci sediamo anche noi e tra un cappellaccio ripieno di zucca e l’altro ascolto le zeta addolcite in esse e mi diverto tantissimo. E mi commuovo per certi sapori.

Il ritorno è una distesa di colline verdi e di frasi note “Tra le colline di Siena. Adagiato nel verde del Chianti. Immerso tra i vigneti”. Poi la luce finisce, sono le 5 ed è buio pesto. E ci sono solo fari e poi i centri commerciali di Roma Nord e Sud, i pastifici di Caserta, gli aerei che atterrano a Capodichino.


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